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Joyce. La paralisi del cuore dei “cadaveri ambulanti”



In inglese si chiama “ Life in death”, ovvero vita nella morte ed è una condizione molto più diffusa di quello che si pensi. Guardandoci attorno sono tanti gli esempi di persone “vive”, che compiono le normali azioni del quotidiano, ma “morte” dentro, perché prive di uno scopo che dia senso alla loro esistenza. Si tratta il più delle volte di individui a cui eventi dolorosi o esperienze negative hanno annientano ogni entusiasmo, interesse e affetto lasciando le loro vite spente e prive di significato. James Joyce, scrittore irlandese del primo novecento associa questa condizione all’emiplegia o paralisi della “Gente di Dublino” (raccolta di novelle del 1914) in cui gli episodi, apparentemente insignificanti ma di fatto essenziali nella vita di personaggi quotidiani, descritti con estrema economia e precisione verbale, diventano l’emblema di una condizione di vita caratterizzata da immobilità, passività e impotenza. I personaggi delle 15 novelle, accomunati da una desolata autocommiserazione, si trascinano pesantemente sul sentiero della vita senza mai scegliere deliberatamente una via d’uscita dalla loro condizione. Il libro si apre sulla morte di un prete paralitico, vista attraverso gli occhi di un bambino che si propone di studiare l’opera letale della paralisi nel mondo che lo circonda. Racconto dopo racconto, l’autore fa la cronaca di esistenze sempre più spente per chiudere con una storia esemplare The Dead (I morti) in cui un sottile gioco di immagini fa dei morti gli unici esseri veramente presenti e moralmente vivi in un mondo in cui i viventi giacciono come sepolti sotto una coltre di neve. L’occhio indignato con cui spesso guardiamo i “morti-viventi” che ci circondano non è dissimile dall’atteggiamento di condanna di Joyce, giudice superbo e spietato della prigione di Dublino. Ma lo scrittore va oltre e nelle opere successive, superando l’idea di un io incontaminato, passa a una ricerca di comprensione piena del reale che lo porterà a sentimenti di umanità e fratellanza e alla scoperta dell’unità tra “io” e “mondo”.

La quaresima e in particolare la settimana santa ci hanno fatto riflettere sulla nostra condizione di vita, a guardarci dentro e intorno, a svegliarci dalla nostra aridità spirituale, in cui gli stessi valori diventano catene e reti, e a non giudicare gli atteggiamenti di sconfitta degli altri con distacco e superiorità. Sforziamoci piuttosto di camminare insieme verso il sepolcro con la piena convinzione che Gesù è risorto. Solo così potremo risorgere veramente con Lui.

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