Alcesti: la filía coniugale in Euripide
- Tinuccia Russo
- 21 mag 2016
- Tempo di lettura: 3 min

Secondo una gradita consuetudine, anche quest’anno, nella suggestiva cornice del teatro greco di Siracusa, tra il 13 maggio e il 19 giugno, saranno rappresentate due tragedie, l’ Elettra di Sofocle e l’Alcesti di Euripide; due donne saranno, quindi, protagoniste del cinquantaduesimo Ciclo di spettacoli classici al Teatro Greco della città siciliana, un tempo splendida colonia della Magna Grecia, oggi punto di riferimento per gli amanti della cultura e della civiltà classica, a livello nazionale e internazionale. Le opere dei tragediografi greci del V sec. a. C. sono un efficace strumento di formazione; Eschilo, Sofocle ed Euripide, hanno ancora qualcosa da dire a noi, uomini del XXI secolo. La distanza temporale è colmata da un indissolubile legame culturale, se è vero che noi occidentali siamo i diretti discendenti della civiltà greca sotto numerosi punti di vista, e dal permanere inalterata nel tempo della condizione esistenziale dell’uomo che soffre, ama, calcola, decide, opera delle scelte e si accorge poi di aver sortito il contrario di quello che pensava fosse il bene, che sente di essere dominato da una forza che lo trascende e che le sue azioni non dipendono totalmente dalla sua volontà. L’Alcesti di Euripide fu rappresentata nell’Atene del 438 a. C. come quarto dramma dopo una trilogia, al posto di un dramma satiresco; si tratta, infatti, di una tragedia a lieto fine (la donna viene strappata a Thànatos, demone della morte, da Ercole, che la riconduce dall’Oltretomba al marito), tanto che gli studiosi si sono posti il problema di individuarne la “sostanza tragica”; nel dramma in cui una moglie, Alcesti appunto, si offre per morire al posto di Admeto, suo marito (il fato lo aveva destinato ad una morte prematura, ma egli aveva poi ottenuto da Apollo di aver salva la vita se un altro si fosse offerto al suo posto), qualcuno l’ha ravvisata nella delusione della donna di fronte alla meschinità del suo uomo, che accetta il suo sacrificio senza battere ciglio. Euripide, tuttavia, non aveva intenzione di rappresentarlo negativamente, dal momento che nel corso dell’opera lo presenta come uomo giusto e il coro stesso lo elogia. I due sposi sono, in verità, vittime della dea Anánche, della “Necessità”, e non possono sottrarsi al loro destino; come sottolinea Alcesti prima di morire, il corso delle vicende umane dipende dalla volontà e dalle decisioni degli dei e all’uomo non resta altro che accettare ciò che ai suoi occhi appare terribile e inspiegabile. La sostanza tragica va piuttosto cercata nell’alta dignità con cui i due sposi elaborano e affrontano la loro dolorosa situazione. Nell’Alcesti c’è l’esaltazione dell’eros come filía coniugale, intesa come esclusività e reciprocità del rapporto tra marito e moglie. La moglie si sacrifica ma chiede in cambio al marito di non risposarsi, perché ciò potrebbe calpestare i diritti dei figli di primo letto; Admeto le promette eterna fedeltà. Pur essendo la protagonista, Alcesti parla poco, parla solo se costretta e, alla fine, una volta tornata dall’Oltretomba, non parla affatto. Noi ci chiediamo se sia pentita, confusa e come vivrà il resto della sua vita accanto a un marito che, è vero, resta a lei fedele, ma, tutto sommato, non fa una bella figura. L’autore non fornisce una risposta a questi legittimi interrogativi; noi, per averla, non possiamo fare altro che rivolgerci alle donne, alle madri dei nostri giorni che amano e non dicono, semplicemente, amano.
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