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Leonard Cohen e la sua arte


Leonard Cohen, l’artista canadese che ci ha lasciati lo scorso 7 novembre, è stato il più grande cantautore nordamericano del ‘900 insieme a Bob Dylan. Nato a Montréal, nel 1934 da genitori ebrei, Cohen da New York si trasferisce a Londra ma, stanco del cielo e del clima piovoso, va a vivere nel 1960 nell’isola greca di Hydra: un ricettacolo di artisti che amano la vita selvaggia. Sono anni prolifici, questi: Leonard conclude il suo secondo libro di poesie, che gli dà notorietà internazionale, scrive due romanzi e un terzo libro di liriche, incomincia a comporre testi di canzoni. Nel 1967, mentre negli Usa, dove il cantautore si è intanto trasferito, Dylan canta “I tempi stanno cambiando”, gli hippy parlano di pace, libertà, droga e sesso libero, Leonard si distingue per una vena più europea, religiosa ed esistenziale: le sue canzoni parlano di solitudine, malinconia, di amori finiti e suicidio, di emarginazione; propongono il binomio sesso-religione, santo-discepolo, peccato-redenzione, vincente-perdente, schiavo-padrone; hanno una tensione biblica ma più umana e indulgente, anche se non meno "apocalittica" di quella di Dylan. Nella sua ispirazione pesa il retroterra familiare con la sua osservanza religiosa ebraica, la morte del padre quando aveva nove anni, la depressione della madre, malattia di cui anche egli soffre. Un senso di inquietudine lo accompagna, che trova riscatto nel lavoro. Scriverà “Di solito tendo alla tristezza. Per alcune canzoni ho impiegato diversi anni. Nessuna di essa è stata un parto facile, dopo tutto questo è il nostro lavoro. Tutto il resto va spesso in malora, in bancarotta totale, e così quel che rimane è il lavoro, ed è quello che faccio per tutto il tempo, lavorare, creare l’opus della mia vita. Il nostro lavoro è l'unico territorio che possiamo governare e rendere chiaro. Tutte le altre cose rimangono confuse e misteriose”. Allo stesso tempo, la sua profonda empatia e sensibilità verso la sofferenza altrui, il suo temperamento gentile e delicato, lo aprono alla comprensione degli altri. Con la sua voce profonda, che ironicamente egli paragonerà a un “rasoio arrugginito”, inizialmente col semplice accompagnamento della chitarra, racconta, in “ballate trasognate in bilico tra una ninnananna e un salmo religioso”, storie di vita quotidiana che parlano da cuore a cuore. Tra i capolavori di questa stagione ricordiamo Bird On A Wire, disperato apologo su libertà e solitudine. L’arte di Cohen si evolve, gli arrangiamenti delle sue canzoni sono divenuti più ricchi e raffinati e la sua vena, talora più pessimistica, si è aperta a scenari apocalittici. Nell’album The Future, l’avvenire del pianeta si prospetta cupo e angoscioso, pieno di orrore e disumano. Solo l’amore gli appare l’unica ancora di salvezza. Di lì a poco entrerà nel monastero buddhista di Mount Baldy, in California, dove viene ordinato monaco col nome di Jikan (“Silenzioso”), senza però rinunciare alla proprie radici ebraiche. Vi resta sei anni, durante i quali però capirà di non essere nato per vivere lontano dal mondo. Scriverà, infatti, in una lirica Ho lasciato la mia veste appesa/ nella vecchia capanna/ dove sono stato seduto a meditare così a lungo/ dove ho dormito così poco./ Infine ho capito/ che non sono per niente portato/ per le Questioni Spirituali. Ma non è tutta la verità, perché il solitario, il silenzioso che c’è in lui continueranno ad esprimersi, nell’immagine quasi monacale, in quell’impasto di tenerezza, umiltà, fascino, grande musica, che proporrà al mondo fino agli ultimi giorni. “Quando lo vedi salire sul palco – scriverà Bertoncelli – come un personaggio delle sue, quando lo ammiri tanto disponibile e gentile con il pubblico, con un sorriso che ogni volta pare uno stupito ringraziamento, quando scopri che il suo stare in scena è pura sincerità, fino alla goffaggine, allora ogni discorso critico va all’aria e vince l’emozione. Ha la voce ancora più tenebrosa di ieri, Cohen, e rigida, tanto che spesso declama più che cantare; però quel basso profondo rimane un saldo timone e con quello scivola tra canzoni vecchie e più nuove”. Il poeta dell’angoscia esistenziale e dell’amore come unico orizzonte di speranza, che aveva stigmatizzato l’aborto e la finta democrazia degli Stati Uniti, l’uomo dignitoso sempre pronto a cogliere le proprie manchevolezze, elegante e accessibile, di una galanteria d'altri tempi, ricco di un “carisma senza audacia”, come l’ha definito il figlio Adam, ci lascia quasi in sordina dopo una banale caduta, spegnendosi pacificamente nel sonno. Poeta del corpo e dell’anima, parlerà sempre al cuore non solo dei tormentati di questo mondo, ma di chiunque creda nella tenerezza, nella bellezza, nell’amore; al cuore di chi possiede uno sguardo gentile sulle cose.

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