Tutta la Fede che posso
Dentro ai meandri di un’umanità che soffre, ma che vive in modo autentico e coerente la propria condizione esistenziale, ci conduce l’ultimo romanzo di Erri De Luca, “La Natura Esposta”. Al centro della narrazione c’è una statua di candido marmo da restaurare, raffigurante il Crocifisso a grandezza naturale o, meglio, l’umanità di Cristo esaltata al culmine della sua vicenda terrena e divina sul Golgota, secondo le intenzioni dell’artista dei primi del Novecento, che aveva voluto rappresentare il momento in cui il giovane corpo, in preda agli spasimi, smette di resistere alla morte che infuria nelle sue più intime fibre. La nudità esposta è l’ultima delle torture inflitte a Cristo dai suoi aguzzini, così come a tutti coloro che subivano la crocifissione, un’ulteriore umiliazione, in quanto il condannato non aveva la possibilità di coprirsi, e rappresentava, nella contorsione e nella tensione muscolare, l’estrema espressione della sofferenza. Il romanzo può considerarsi un cammino di rivelazione, percorso dal protagonista, un intagliatore-scultore, che è incaricato da un sacerdote di restaurare la statua di Cristo, togliendo il panneggio appostovi per coprire la nudità, contro il volere dell’artista che l’aveva realizzata. Un cammino che diventa l’occasione per un’attenta analisi del sacrificio sulla Croce, condotta, non attraverso le Scritture, ma attraverso la lettura di una scultura, una lettura tattile dei simboli di cui l’autore ha caricato quel corpo straziato per trasformarlo in simbolo di salvezza. Il legno della Croce come una scrittura, la cui decodifica viene eseguita dal restauratore grazie all’aiuto di un rabbino, di un operaio musulmano, di un prete, che lo aiutano a scavare i significati, ad ingrandire i particolari. Leggere questo romanzo equivale a calarsi nella vera essenza dell’umano e, per un credente, come per chi scrive, trovarsi “a tu per tu” con il proprio modo di concepire le relazioni con gli altri, di vivere l’altro, in un continuo rimando al secondo e grande comandamento come misura dell’essere cristiani. Per raggiungere questo traguardo bisogna, infatti, essere uomini tra gli uomini, così come lo fu Cristo, che si calò nella storia accogliendo nella propria persona la dimensione corporea delle sue creature, mostrando la strada che conduce a Lui, quella che passa attraverso l’uomo. Le esperienze di vita del restauratore, gli attraversamenti oltre il confine come guida dei clandestini, senza chiedere denaro in cambio; la sua scelta di confondersi tra gli immigrati per ascoltare le loro umanissime storie di vita; la volontà di conoscere Cristo nella corporeità della sofferenza, fino alla decisione di rendersi simile a Lui con la circoncisione: sono queste le diverse espressioni di un sentimento di umanità che trova il suo punto di sublimazione nella misericordia, ma che permane “terrestre”. Comprendere e condividere i limiti della condizione umana su un piano puramente razionale non significa avere fede. E se è vero che l’anonimo restauratore si cala nelle sofferenze di Cristo, le studia, vi si immedesima, la via che passa attraverso l’Uomo, tuttavia, non lo conduce alla Fede. “La terra è un organismo vivente, questa è tutta la fede che posso”.