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Dalle informazioni alla conoscenza


Rifletto spesso, con i miei giovani studenti, sul fatto che oggi viviamo in un’epoca in cui siamo ricchissimi di informazioni. Le notizie, le ‘news’, le ‘info’, sono facilmente a portata di mano. Anzi, ci inseguono: in televisione, alla radio, sui cartelli pubblicitari, sul computer, sui social network, sui nostri telefonini. Tutto questo ovviamente, per certi versi, è positivo. Un tempo, l’accesso all’informazione era molto più ristretto, magari limitato volutamente a pochi, e, sicuramente, meno veloce e immediato per tutti.

Tuttavia, viene da chiedersi, tale situazione rappresenta unicamente un elemento positivo o contiene degli aspetti potenzialmente negativi, o che tali possono diventare se non ci accostiamo al fenomeno in questione con la buona compagnia di una sana riflessione critica? La risposta, ci dicono giustamente gli esperti, è sì: la ricchezza e la sovrabbondanza di informazioni possono diventare, paradossalmente, elementi negativi. Perché? Per il semplice fatto che l’informazione, di per sé, ci informa, appunto, ma non ci mette necessariamente a conoscenza di ciò di cui veniamo informati.

Sapere che in un paesino, che so, del Lazio, un uomo si è tolto la vita, rappresenta un’informazione; un tempo non lo avremmo saputo mai – a meno che non si fosse trattato di un personaggio famoso – mentre, oggi, telegiornali e testate on line ce lo dicono quasi in tempo reale. Ne siamo informati subito, appunto. Però – è questo è il punto – siamo veramente a conoscenza di ciò che è accaduto? Sappiamo cosa è scattato nella mente di quell’uomo? Cosa lo ha spinto al suicidio? Quali erano le sue sofferenze, i suoi tormenti, il suo disagio interiore? No. E non lo sapremo mai nemmeno da un’informazione che voglia essere più dettagliata, che ci dica l’ora e le circostanze dell’evento, o che riporti le testimonianze immediate dei vicini o degli amici. Se vogliamo ‘conoscere’ ciò che è accaduto dobbiamo avere nei confronti di quel fatto un atteggiamento ‘filosofico’. Dobbiamo cercare di chiederci davvero, cioè, perché quell’uomo si è ucciso; quale stile di vita conduceva; approfondire i suoi rapporti con chi gli stava vicino; leggere le sue eventuali testimonianze scritte; parlare con i suoi figli, sua moglie, i suoi parenti; farsi raccontare che cosa amava, quali erano i suoi sogni. Direte voi: non è possibile.

Non è vero: è possibile. È solo che non possiamo farlo per ogni informazione che riceviamo; dobbiamo necessariamente selezionare. L’importante, però, è non avere l’illusione di ‘conoscere’ davvero ciò di cui veniamo informati. E, soprattutto, di non trasferire tale modalità superficiale e ‘informativa’ a tutto il nostro modo di rapportarci con l’altro da noi.

La conoscenza, quella vera, è un processo che richiede tempo, attenzione, passione. È un’operazione complessa, che rispecchia la nostra stessa complessità di esseri umani, di creature spirituali; un’operazione che possiamo giustamente riservare solo a certi aspetti della realtà. Però, quando davvero lo facciamo, compiendo uno sforzo, ci arricchiamo, e questa volta in modo duraturo e proficuo. Ci arricchiamo perché trasformiamo, come suggeriva il filosofo tedesco Hegel, ciò che è ‘noto’ in ‘conosciuto’;

penetriamo nella profondità di ciò con cui veniamo in contatto (fatti, eventi storici, persone) e li facciamo ‘nostri’, nel senso più completo del termine.

Solo così sfuggiremo al pericolo di avere sempre più, nei confronti del mondo esterno, un atteggiamento semplificante e riduttivo quell’atteggiamento, cioè, tipico dell’informazione spicciola, che tende a classificare e ad etichettare in modo facile e sbrigativo. Facilità e sbrigatività sono caratteristiche essenziali per l’informazione, ma non devono esserlo nella conoscenza autentica; non devono esserlo, ad esempio, nella comunicazione tra le persone, che deve essere il più possibile autentica, se intende far svolgere ad essa il suo ruolo, per certi versi, salvifico per il nostro stare bene al mondo e con noi stessi.

Ecco allora, non fermarsi, dico ai giovani, alla superficie di ciò con cui vengono in contatto, ma di andare ‘oltre’, di sforzarsi di comprendere a fondo (di ‘conoscere’) ciò con cui si rapportano. Evitando, così, il rischio della semplificazione e della banalizzazione, e coltivando, nel contempo, l’abitudine ad un approccio critico, attento e consapevole nei confronti della realtà e del prossimo.


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