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Il bastone o la carota? Homo sum; humani nihil a me alienum puto (Terenzio)

Educare significa penetrare in un mistero. Ciò non vuole essere una giustificazione alle numerose frustrazioni di chi è impegnato giornalmente nell’e-ducare (dal latino e-ducere, tirar fuori); al contrario, è l’attuale consapevolezza di una maturità raggiunta mio malgrado, non perché non volessi, ma perché era già tempo. Non è un arrendersi, ma uno stimolo a continuare la ricerca; è la gioia di stupirsi e, di volta in volta, di sentirsi parte di un flusso vitale che raramente è dato di percepire. E’ una predisposizione naturale da saper cogliere e coltivare. Non è necessario sapere che da qualche parte c’è una cattedra che ci attende, non è necessario aver vegliato un vagito o una febbre alta: siamo tutti educatori e, spesso, inconsapevolmente. Entrare nel mistero significa prendersi cura dell’altro, senza imporre le proprie idee, il proprio modo di concepire la vita, lasciandolo libero di esprimersi, aiutandolo a diventare se stesso e rispettando il suo essere “persona”. Chi si riconosce in questo modo di concepire l’educazione?

Oggi, tutti (grazie anche al processo, ancora in fieri, di emancipazione della donna); alcuni per scelta consapevole, altri per non essere fuori dal coro. Sfugge, tuttavia, ai più l’aspetto cruciale della questione, che riguarda non tanto la quantità di libertà che siamo disposti a concedere ai nostri giovani, quanto le modalità del prendersi cura di loro. Non era sfuggito a Terenzio, commediografo latino del II secolo a.C., il problema dell’educazione dei giovani; nell’Heautontimoroumenos, (Il punitore di se stesso) egli lo affronta con garbata ironia e umanità, portando sulla scena due padri, Menedemo e Cremete, che hanno un diverso modo di concepire il proprio ruolo, l’uno facendo leva sul rigore, l’altro seguendo la strada della comprensione. Alla fine Terenzio farà prevalere quest’ultima, non senza sottolineare il pericolo che essa possa scadere nel permissivismo e, di conseguenza, nell’amoralità. Ancora oggi il rischio in cui si incorre con l’essere dei genitori aperti, sempre pronti al dialogo, accondiscendenti è la crisi morale e sociale che è sotto gli occhi di tutti. Sono allarmanti alcuni dati che riguardano i nostri giovani; si è , infatti, abbassata notevolmente l’età della prima assunzione di alcool e delle cosiddette droghe “leggere”; è aumentata la percentuale dei ragazzi che abbandonano gli studi, così come quella delle baby-mamme e dei baby-papà. E che dire delle agghiaccianti notizie di cronaca che riguardano il cyber-bullismo, i casi di stupro, i femminicidi, che vedono protagonisti giovani e adolescenti, e le ragazze che si prostituiscono per comprarsi abiti e accessori firmati? E’ vero, è un triste elenco dei mali che affliggono la popolazione giovanile italiana, che non tiene conto delle innumerevoli realtà positive che la interessano. Esistono, tuttavia, ed è un male fare finta di niente, sono i nostri figli. In che cosa sbagliamo noi adulti? Questi mali sono, in effetti, da imputare alla scelta di una linea pedagogica permissivista contro quella impostata sui divieti, sul rigore, sulle punizioni? “In medio stat virtus”: ancora una volta la civiltà classica ci viene incontro; se è necessario scegliere, è meglio optare per l’equilibrio, evitando gli eccessi. Come madre ho dei saldi punti di riferimento, come il freddo buon senso, la coerenza, l’obiettività che, però, non sembrano dare sempre buoni frutti; devo fare, infatti, i conti con quella tenerezza materna, dimentica del taglio del cordone ombelicale, che vuole prevalere. Nel frattempo mi riprometto di leggere due testi che consiglio a chi, come me, fosse interessato all’argomento: Antonio Polito, Riprendiamoci i nostri figli, Marsilio Editore; Acosta, Hutchinson, I bambini più felici del mondo, Bur.


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