Betlemme e l’esperienza fisica del divino
«Poiché la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi» (1Gv 1,2)
Uno dei luoghi più suggestivi della Terra Santa è certamente Betlemme, piccolo borgo della Giudea reso singolare per la presenza della Basilica della Natività. Un luogo fisico che conserva la memoria di un evento divino ma allo stesso tempo umano. Fu per questo motivo che San Girolamo decise di ritirarsi in quel luogo, dedicandosi allo studio e alla traduzione delle Scritture.
La Basilica che oggi vediamo andando a Betlemme non è esattamente la prima che fu consacrata nell’anno 339d.C sul luogo della grotta della Natività di Gesù. Infatti l’imperatore Giustiniano nel 529 d.C. si occupò di costruirne un’altra nello stesso luogo, ancora più bella e magnifica della precedente. Dunque la sua costruzione, come quella del Santo Sepolcro di Gerusalemme, non fu altro che l’espressione della volontà del Concilio di Nicea I (325 d.C.), di riportare l’attenzione su quella verità di fede che riguarda la persona di Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo. Davanti ai pericoli rappresentati dalle varie teorie eretiche, che separavano la dimensione spirituale dell’uomo positiva da quella carnale negativa, la Chiesa dovette difendere la propria identità esprimendosi in vari modi. Così, la costruzione di questa Basilica servì come risposta decisa e ferma per sottolineare il valore di quello scandaloso mistero di Dio, rivestito di “indegna” carne umana.
Se è vero che l’antico interroga l’oggi, notiamo che la nostra epoca ha perso il contatto con l’incarnato della vita, siamo cioè troppo assuefatti ad un’esperienza disincarnata e disincarnante delle nostre relazioni. Talvolta si ha difficoltà anche nell’instaurare un semplice dialogo, nel vivere momenti di vera e profonda condivisione guardandosi negli occhi. Tale modo di vivere ci conduce fuori dall’incontro personale tra noi, ma anche dall’incontro personale con Dio. Le conseguenze di questo si vedono nel sempre più crescente individualismo che caratterizza la nostra epoca. Quanto tempo ci tolgono i nostri utilissimi strumenti di comunicazione? Con essi noi crediamo di “guadagnare tempo”, tuttavia inevitabilmente ci disincarnano, ci portano in un mondo irreale che diventa anche il modo per fuggire dall’incontro. Ora se più di duemila anni fa Dio si è incarnato per raggiungerci e per rendersi visibile a noi, cosa dovrà fare adesso? La nostra salvezza non dipende da altro se non dall’incontro con Lui, dallo stare con Lui, dall’averlo visto e toccato nella nostra esperienza ecclesiale, o almeno così dovrebbe essere. Betlemme significa casa del pane, e il pane ci ricorda la concretezza dell’Incarnazione, la fisicità di Dio che oltre a farsi uomo si è voluto fare pane. Egli non ha voluto solamente essere accanto a noi, ma dentro di noi. Non c’è esperienza più incarnante di quella che ci permette di mangiare il corpo di Cristo nell’Eucaristia. Quanto più Dio si incarna in noi, tanto più noi, trasformati in lui, diveniamo capaci di incarnarci nei nostri fratelli. In questo Natale permettiamo a Dio di continuare a farsi carne, di abitare in mezzo a noi, anzi dentro di noi, e allora saremo in grado di fare della nostra vita una nuova Betlemme, su cui edificare una tangibile ed incarnata esperienza del “divino” nel nostro fragile ma tuttavia glorioso “umano”.