Nati per essere felici
Parlare e scrivere di felicità mentre venti di guerra soffiano a poca distanza da noi apparirà quanto mai inopportuno. Sono, tuttavia, convinta, che non siamo nati per il dolore, ma per la felicità: pur attraversando nel corso della nostra vita momenti di sofferenza, non credo che esista un destino cieco che ci condanni a questa condizione in modo inappellabile perché ciò significherebbe essere in balìa del Caos e dell’irrazionalità: che senso avrebbe la nostra vita se, comunque, fossimo destinati alla sofferenza? Non ci sarebbe posto per una condizione diversa. Nella nostra vita, come nella natura, esistono delle stagioni e tutte apportatrici di effetti benefici: solo dopo il letargo dell’inverno, la rinascita della primavera è possibile; le foglie cadono e muoiono, ma per fare posto alle nuove. Così, all’improvviso, un sorriso o una parola di conforto, una svolta inaspettata della nostra vita, un gesto di spontanea solidarietà ci fanno riprendere fiato. Sembra proprio che sia il dolore, con la sua presenza o assenza, a darci la misura della nostra felicità! Il senso di uno appare quando lascia il posto all’altra. Epicuro, antico filosofo greco, nella sua lettera all’amico Meneceo “Sulla felicità” scrive che “è giusto che noi ci dedichiamo a conoscere la felicità…perché quando essa c’è tutto abbiamo”: farmaco contro il tempo che passa e incitamento per i giovani a non temere il futuro e a raggiungere mete inaspettate; virtù fondata non sulla quantità, ma sulla qualità del tempo; non sulla dipendenza dai beni materiali, ma sull’autonomia da essi; non su una cieca Necessità, ma sul libero arbitrio. L’uomo, liberatosi dalla dipendenza dai beni materiali e artefice della propria sorte, possiede dentro di sé il segreto della felicità! Un interessante spunto di riflessione…
Platone riteneva che la bontà e la virtù fossero il fondamento della felicità, che non esistesse un uomo buono che non fosse anche felice; la virtù conduceva diritto alla felicità.
Paradossalmente, oggi nei paesi che seguono un modello consumistico siamo tutti (o quasi) più tristi: pensiamo che questo miraggio che inseguiamo per tutta la vita abbia un fondamento materiale e non etico, che sia legato al “cosa” e al “quanto” e non al “come” possediamo: che si tratti di oggetti o di un modo di apparire, la fonte della nostra felicità è per lo più aleatoria e, dunque, essa stessa lo è. Il prezzo da pagare per essere felici dovrebbe essere, piuttosto, l’attesa, l’obiettivo da raggiungere, la pagina bianca da riempire. Noi non sappiamo più aspettare, corriamo, bruciamo le tappe e ci lasciamo consumare dall’egoismo, dall’odio, da ciò che è illusione di felicità. Come spiegare, al contrario, il sorriso di chi è condannato da un male incurabile, dalla povertà, dalla guerra e dalla solitudine se non con una visione della vita fondata sul “come”? Le priorità in questi casi non sono le cose, ma il rapporto con gli altri, l’assaporare le piccole cose della vita, il considerare la propria vita come un passaggio che, comunque, va vissuto e donato agli altri, in uno scambio reciproco di esperienze e sentimenti. La misura della felicità è ciò che diamo perché “è dando che si riceve”.