Storie di “prodigi” e di sacerdoti pozzogottesi
Pozzo di Gotto, che si unì con Barcellona in un unico comune nel 1835, espresse tra il XVII e il XIX secolo quattro religiosi capaci, rispettivamente, di moltiplicare la produzione dell’olio, di prevedere il futuro, di debellare un’epidemia e di far piovere.
Nei secoli passati l’influenza della religione cristiana caratterizzava quasi tutti gli aspetti quotidiani e sociali, e spesse volte casualità e accadimenti poco chiari generavano suggestioni collettive che sfociavano in veri e propri “avvenimenti miracolosi”. Molti sacerdoti, punti di riferimento delle realtà locali, producendo sentimenti di stima e di ammirazione per il loro operato, divennero i catalizzatori della miracolosa fede cristiana attraverso vari “eventi prodigiosi” a loro attribuiti. Anche la vasta arcipretura di Pozzo di Gotto non fu immune da questo fenomeno, avendo principalmente espresso, tra il XVII e il XIX secolo, quattro religiosi che furono addirittura capaci, rispettivamente, di moltiplicare la produzione dell’olio, di prevedere il futuro, di debellare un’epidemia “con il vino” e anche di far piovere. Il primo fautore di “prodigi” a cui le cronache pozzogottesi riservarono particolare attenzione fu frate Serafino, un predicatore cappuccino distintosi per la rigorosa osservanza delle regole canoniche e per i continui aiuti prestati ai poveri. Discendente dall’agiata famiglia Raimondi, frate Serafino manifestò per la prima volta le sue mirabili capacità a vantaggio di Francesco Cambria, al quale i periti avevano stimato nella «tritura delle Olive» una produzione massima di tre cafisi. Durante il trasporto delle olive al torchio, Francesco Cambria, avvicinato dal frate cappuccino che domandava «la limosina dell’olio», gli chiese un aiuto divino per ottenere una produzione maggiore di quella preventivata. Frate Serafino, acconsentendo alla richiesta, segnò «col capo della corda, di cui era Cinto, una croce sulle olive» che, trasportate al torchio, produssero sette cafisi di olio. Una parte dell’olio “miracolosamente” moltiplicato fu così donata «per la limosina ai Capuccini».
Diffusasi la notizia di questo inspiegabile evento, il nobile Ignazio Di Gregorio chiese a frate Serafino di moltiplicare anche la sua stimata produzione di olio. E pure in questo caso, per intercessione del frate cappuccino, l’olio prodotto dal torchio fu maggiore di quello preventivato.
Per questi due avvenimenti e per altri fatti accaduti nel 1699, il frate pozzogottese Serafino, dopo la sua morte (avvenuta il 28 febbraio del 1715), divenne un prodigioso servitore di Dio.
Amico di frate Serafino fu Bartolomeo Sciacca, un altro cappuccino originario di Pozzo di Gotto, a cui furono attribuite singolari capacità, che si manifestarono anche attraverso la visione del «Santissimo Eccehomo».
Nato nel 1707 da Antonino Sciacca e Natalizia, Bartolomeo frequentò fin da giovane «la Scuola dè PP. Capuccini» e «all’età di 16 anni risolvette di vestirne l’abito». Asceso al sacerdozio, fu nominato predicatore con il nome di frate Gesualdo. «Semplice nè modi e gioviale nel tratto», divenne soprattutto noto per lo spirito di profezia, al punto che in tutti gli affari venivano sempre richiesti i suoi consigli.
Già il 27 giugno del 1744, trovandosi nel convento cappuccino di Messina, frate Gesualdo aveva annunciato la morte della madre avvenuta lo stesso giorno nel casale di Pozzo di Gotto. Nel 1783, trovandosi nel convento cappuccino di Gesso, aveva predetto un grande castigo da parte di Dio. Questa previsione, visto il considerevole interesse che generò in seguito la sua figura, fu addirittura fatta coincidere con «il terribile tremuoto del 5 Febbraro che desolò Messina».
Trasferito nel convento cappuccino di Pozzo di Gotto, frate Gesualdo riscosse notevole notorietà come guaritore di ammalati attraverso le preghiere e anche perché «presaggiva alle donne, che volevano benedetto il parto, il sesso del neonato».
Dopo la sua morte, avvenuta a 89 anni nel 1796, «nella idea di domandare appresso la sua beatificazione, fu sepolto in un luogo vicino all’Altare maggiore della Chiesa dei Capuccini» di Pozzo di Gotto. Nel 1814, il suo corpo, estratto dalla sepoltura per essere traslato in una cappella del convento pozzogottese, si presentò ancora incorrotto al popolo e alle autorità civili ed ecclesiastiche.
I prodigi operati da frate Gesualdo continuarono anche dopo la sua morte per mezzo della «Coppoletta» da lui utilizzata, la quale, posta in testa ai malati e alle «Donne travagliate da parti laboriosi», produceva suggestioni e «mirabili effetti» dopo la recita di un «Pater noster».
La figura di frate Gesualdo fu onorata per moltissimi anni a Pozzo di Gotto e un quadro che lo raffigurava, un tempo custodito nel locale convento cappuccino, riassumeva le sue prodigiose capacità attraverso la seguente iscrizione: Il reverendo padre Gesualdo Sciacca, predicatore cappuccino, proveniente da questa città di Pozzo di Gotto, dotato di semplicità nei comportamenti, di splendore dell’anima e di onestà nella condotta, si mostrò prezioso in ogni cosa. Onorava con grandissima cura la beatissima Vergine, dalla quale ricevette molti benefici; tra l’altro meritò di vedere più volte nel sacrificio della messa, compiuta la consacrazione, l’ostia trasformata in Cristo in quella forma che Pilato mostrò al popolo dei Giudei dicendo Ecce homo. Infine, stimato per virtù e meriti, inquieto più per amore che per risentimento, compiuti alcuni miracoli prima e dopo la morte, in buona vecchiaia, si spense nel bacio del Signore in questo venerabile convento di Pozzo di Gotto nell’anno della salvezza compiuta 1796, il giorno precedente le calende di settembre, all’età di 89 anni, con 73 anni di sacerdozio.
Tra i cappuccini che effettuarono portenti a Pozzo di Gotto, oltre ai frati Serafino e Gesualdo, si segnalarono anche Salvatore di Samperi (capace di far guarire il dolore di denti con un semplice tocco delle dita), Giuseppe d’Adrano (che attinse l’acqua da un pozzo con un paniere di vimini) e Giuseppe Bocca di Castroreale.
Quest’ultimo, trovandosi nel 1684 a Pozzo di Gotto, si recò dal notaio Antonino Rossitto per prelevare la pochissima quantità di vino che era rimasta «nel piccolo fondo di un bottaccio». Accostato il fiasco, frate Giuseppe vide correre il vino con grande violenza, poiché la botte si presentava miracolosamente piena. Il notaio Rossitto, attribuendo al frate cappuccino la prodigiosa moltiplicazione, donò ai poveri il vino della botte, che addirittura ebbe la facoltà, dopo essere bevuto, di risanare i contagiati di un’epidemia che in quel tempo interessava Pozzo di Gotto.