Quale futuro per le nostre comunità?
Sabato. Primo giorno di catechismo. Il primo anno di tre in preparazione alla prima comunione. “Sai, le dice l'amichetta che l'ha convinta a partecipare, domani, domenica, andiamo tutti in Chiesa”. “Ma cos'è la Chiesa?”. Risponde stupita la ragazzina.Si sarebbe stupito moltissimo anche Mons. Fasola, nel constatare che fino a sei anni nessuno avesse mai iniziato quella bambina, regolarmente battezzata, all'esperienza religiosa cristiana.Vissuto in tempi di ancora diffusa cristianità, era scontata per lui la fede trasmessa attraverso “il latte materno”. Una trasmissione che andava di pari passo con l'educazione alla vita e alla quale davano il loro apporto scuola e società. Si assorbiva la visione cristiana della vita e si imparava a manifestare la fede attraverso l'aria che si respirava. Alla Chiesa, il compito di organizzare e sistematizzare quanto già si era appreso. Mons. Fasola avrebbe avuto difficoltà a capire come mai si fosse interrotta la cinghia di trasmissione e perché oggi “le quarantenni”, da sempre naturalmente deputate alla trasmissione della fede siano “in fuga dalla Chiesa”, assenti, in rotta di collisione. Il risultato, generazioni sempre più incredule, per le quali niente resta degli anni di preparazione alla prima comunione e che continueranno, a loro volta con i loro figli, l'opera di non educazione alla fede, ritenendo questa, non necessaria per vivere bene. La sua preoccupazione di padre e pastore gli avrebbe fatto temere giustamente la tenuta della stessa fede. Non so se la sua sollecitudine pastorale lo avrebbe spinto a rafforzare, arricchire, aggiornare tutto il patrimonio secolare di una pastorale di conservazione che nel tempo aveva reso possibile e facilitato la trasmissione e il permanere della fede. Non so se avrebbe coinvolto il clero in percorsi di arricchimento spirituale e teologico, nel presupposto che, se le cose andavano male, questo era dovuto al fatto che i preti non erano santi e non insegnavano più con autorevolezza e determinazione quello che la gente doveva credere e come doveva comportarsi. Penso, però, che secondo il suo stile pastorale, ci avrebbe chiamati tutti attorno a un tavolo per invitarci a riflettere, a confrontarci, a suggerire strategie di azione.
Nel cambiamento d'epoca che stiamo vivendo e nel quale è cambiato quello che l'uomo pensa di se stesso e il suo modo di porsi di fronte alla vita, non si può continuare a trasmettere il Vangelo nel suo contenuto dottrinale-veritativo e nei suoi risvolti morali, in forme ormai da tempo, storicamente datate perché pensate per tempi di cristianità.
Occorre ritornare all'essenza della fede in Cristo che rende possibile vivere in pienezza la propria umanità. Quel riscatto di umanità che ritroviamo nel Vangelo tutte le volte che Cristo incontra qualcuno.
Una pastorale missionaria deve far ritrovare nell'annuncio quello che la gente, nel più profondo del suo cuore, sta cercando.

Ogni linguaggio ecclesialese, allora, risulta inadeguato, incomprensibile. Ogni impianto devozionistico appare una rassegna di reperti archeologici. Fuori luogo e perdita di tempo, il rito che non si fa celebrazione del vissuto della gente e sua “trasfigurazione”.
Quanto tempo occorre per iniziare un bambino, già profondamente secolarizzato, alle fede? Quanto coinvolgimento dei genitori occorre mettere in campo, già sufficientemente oberati e stressati da problemi personali, crisi affettive, impegni e quant'altro e in atteggiamenti critici se non di rifiuto della fede (di una certa fede), perché si convincano a farsi carico del compito di educatori alla fede dei propri figli? Quale preparazione proporre agli operatori pastorali (sacerdoti compresi) perché si rendano conto del cambiamento d'epoca già avvenuto e, serenamente, si attrezzino per abitare una modernità divenuta di fatto post cristiana, a-religiosa?
Mons. Fasola, certamente non ci darebbe alcuna risposta, consapevole di una sfida oltremodo impegnativa. Non si tratta di rifare la facciata. Non è un tubo dell'acqua che perde o una tegola da risistemare. C'è un problema strutturale da guardare con molta attenzione. Ed ecco, che, ancora una volta, avrebbe esortato a fare “quello che la situazione concreta rende possibile”. La realtà è sempre più forte dell'idea o del progetto elaborato a tavolino. Avrebbe scommesso soprattutto sulla carità pastorale che sempre sa essere creativa se vissuta in comunione con tutta la comunità cristiana.