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Iris Isgrò L’artista Barcelgottese


Se dovessi definire con pochi termini l’esistenza terrena di Iris Isgrò, direi che passione per l’arte, amore per la sua città, impulsività, famiglia e lavoro sono quelli che a pieno lo hanno caratterizzato. Tutto ha inizio già dal nome Iris (che più appropriato non poteva rivelarsi), con cui il padre –uomo stravagante non credente, amante della natura e dei fiori- vuole a tutti i costi chiamarlo, sfatando le critiche paesane secondo le quali con un nome pagano sarebbe morto anche questo bambino come il precedente. Penultimo di cinque figli, Iris mostra sin da piccolo una spiccata attitudine al disegno. Il suo primo schizzo che rappresenta il volto di Cristo in croce, risale all’età di cinque anni. Il professore Salvatore Crinò, suo unico insegnate alla scuola serale di disegno, nelle fredde sere d’inverno all’interno della G.I.L., lo educa al disegno slatentizzando quella che è un sua innata passione che lo accompagnerà fino alla fine dei suoi giorni. Cresciuto dall’età di tre anni, in una Barcellona Pozzo di Gotto che non gli aveva dato i natali, Iris è visceralmente legato alla sua città, definendosi barcelgottese, termine questo da lui coniato. Grande maestra per lui, come gli aveva inculcato il suo professore, è la natura da cui sempre prende ispirazione, appuntando sugli schizzi i colori che, una volta osservati, ha perfettamente memorizzato. Negli anni della prigionia a Norimberga, per sopravvivere disegna a memoria anche la sua Barcellona in piccoli fogli di carta reperiti qua e là che baratta per un tozzo di pane duro. Rientrato dalla prigionia e fattosi una famiglia, Iris a trentuno anni inaugura la sua prima mostra personale che intitola Barcellona Pozzo di Gotto 1954, in cui alcune tele lasciano già percepire il suo forte legame ad un vissuto semplice fatto di grandi valori e saperi dove gli scorci di una Barcellona desiderosa di risorgere dalle rovine della guerra completano magistralmente lo spaccato di vita del periodo. Di lì a poco, riesce a costruire una casa per la sua numerosa famiglia dirimpetto alla Chiesa di San Vito a Pozzo di Gotto, in quella che era la vecchia piazza omonima e che da poco—abbattuta la storica torre campanaria - è divenuta strada. Più volte nel corso degli anni questa chiesa sarà oggetto di suoi dipinti, quasi a voler lasciare testimonianza di ciò che è stato brutalmente “cancellato”. Uno per tutti il murale con San Vito Martire che realizza, sul prospetto di casa sua nel 1986, in segno di protesta per aver sconsacrato e venduto la chiesa al Comune e per aver portato via il Santo dalla sua dimora. Il forte legame ai luoghi lo accompagnerà sempre. Anche quando nel 1964 lavora in Florida per un anno e mezzo come cartellonista, dipinge per svago una serie di tele, sulla base dei ricordi, che ritraggono la sua città con cui parteciperà al Festival dell’Arte di Orlando. Pennelli e tavolozza saranno sempre presenti nella sua vita, e anche se sembra accantonarli per dedicarsi alla scrittura e alla musica che impara da autodidatta, in verità i suoi scritti, somigliano ai suoi quadri in un’attenta e minuziosa capacità descrittiva.

Trent’anni dopo, settantacinquenne, con un incessante lavoro, ricorrendo alla sua fervida memoria, realizza quella che diviene la maggiore eredità alla sua città: una fitta produzione di tele e schizzi acquerellati ad essa dedicati, raffiguranti processioni, antichi mestieri, giochi di un tempo, piazze con fontane non più esistenti, solo per citarne alcune, che saranno raccolti e pubblicati in due volumi e costituiranno la sua ultima e più grande soddisfazione.

Gli sarebbe piaciuto vivere, diceva sempre, facendo solo l’artista, ma questo non gli era stato possibile.

Il lavoro però di imbiancatore, stuccatore e decoratore che lui è riuscito a fare dialogare con la sua grande abilità e arte nel disegno ha fatto sì che ancora oggi, che non c’è più da dieci anni, rimanga tra i più apprezzati nel suo campo.

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