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Memory... IL GREST


Introduzione al Memory Grest: Le vostre foto, che sprigionano spontanea allegria, entusiasmo e gioia di vivere, mi hanno riportato indietro nel tempo e mi hanno fatto rivivere i ricordi dei nostri primi Grest nella parrocchia, un tempo guidata da Monsignor La Rosa, Padre Conti e Padre Spada. La stessa parrocchia, ora guidata da Monsignor Santino Colosi, che desidero ringraziare per avermi invitato a scrivere su questa importante tradizione, sta continuando a far crescere ed entusiasmare tutta la comunità e ‘Fare Comunità ‘ significa, essenzialmente, volersi bene. Dobbiamo riconoscere che Monsignor Colosi, sta guidando, come un maestro d'orchestra, con competenza ed umiltà allo stesso tempo, tanti giovani che, spendendo le proprie energie per le anime in crescita, portano avanti una tradizione che, innegabilmente, educa e fa crescere. Gabriele Panarello, Michele Munafò, Dara De Gaetano, Mariachiara Randazzo, Carmen Maccari, la prof.ssa Tinuccia Russo e tanti altri che, in quest'orchestra, stanno suonando una musica bellissima, accordandosi in armonia tra di loro. Non si preoccupano di fare molte cose, ma di farle bene e farle insieme: cantano in coro, suonano senza prevaricare e coinvolgono tutta la comunità, oggi come allora.

In canonica e a San Vito

Quando, terminata la scuola con i ritmi serrati dei doveri, arrivava l’estate, trovavamo più spazio per il tempo libero e andavamo al Grest! Così le chiese di Santa Maria e San Vito diventavano ‘cantieri di formazione’. Intere generazioni sono passate dalla canonica e si sono formate in quei luoghi di culto e ricreativi, in tutte le stagioni.La Canonica di Santa Maria e San Vito pullulava di bambini ed adolescenti alle prese con giochi, musica ed arte. Gioco, inclusione e fede coesistevano armoniosamente.

Tutto veniva magistralmente organizzato da Padre Spada, padre Conti, Monsignor La Rosa e dall'indimenticabile prof. Nino Saia. Organizzavano, di anno in anno, attività sempre diverse, mai ripetitive, grazie all'aiuto dei tanti collaboratori attenti, preparati e dalle idee sempre nuove e originali: le catechiste, quali la signorina Elisa Cassata, le sorelle Grasso, la signorina Molino. i collaboratori-animatori seri ed indimenticabili, come Mimmo Silleri, Salvatore Maniscalco, Ninni Agosta, Nuccio De Francesco, Giovanni Puliafito, i fratelli Romano, Pompeo Condrò. Quei giovani che sceglievano l’arte di animare le giornate avevano tutti un grandissimo talento da condividere e da insegnare. Firmavano il loro impegno davanti all’altare, durante la Messa del mattino, che benediceva ed apriva tutte le attività della giornata. Il loro desiderio di fare si vedeva: erano sempre pieni di entusiasmo e si sforzavano in tutti i modi di far vincere la pigrizia a coloro che ne soffrivano, spesso rimanendo in oratorio o nella canonica anche durante la notte, per programmare le attività. C’era chi, tra di loro, era esperto e chi, invece, con la fronte ancora profumata dal crisma della Cresima, era alle prime armi, ma si metteva in gioco insieme agli altri. Gli animatori erano giovani diversi tra di loro, ma tutti accomunati dalla gioia di servire, di poter essere utili a qualcuno. Per molti anni, in quei luoghi, abbiamo vissuto questo tipo di esperienza, così intensa da essere l’anima delle nostre estati. Attraverso dei veri e propri laboratori artistici, acquisivamo tante abilità: nella ex chiesa San Vito lavoravamo con il seghetto a traforo, decoravamo gli spazi con i graffiti, la pittura e la cartapesta, plasmavamo la creta (Leonardo Siracusa e Salvatore Ingegneri erano i più bravi), dipingevamo e, molto spesso, mentre improvvisavamo, creavamo piccole opere d’arte, che vendevamo, poi, durante le manifestazioni religiose annuali, ricavando qualcosa da donare ai più bisognosi. La musica strumentale, i giochi, la recitazione, la danza, la clowneria erano attività praticate nella canonica di via Garibaldi, al piano terra dell'abitazione dei familiari di padre Conte. Scherzare in modo educato ci divertiva tanto e faceva parte della nostra crescita negli anni dell’adolescenza. Come dimenticare la canzoncina che cantavamo in coro sotto il balcone di don Cocò, di fronte alla chiesa di Santa Maria Assunta, nei pomeriggi estivi e durante le vacanze natalizie e pasquali, in attesa delle attività ecclesiali? Ci avvicinavamo sotto il suo balcone, con i compagni che volevamo far cadere nella trappola perché, essendo nuovi, non conoscevano le reazioni di don Cocò, e cantavamo in coro: “Don Cocò, undi è? Ci ccattamu na tazza e cafè, ciù mittemu ‘nta cichiredda, don Cocò puddicinedda!" E, prima ancora di finire la filastrocca, scappavamo lasciando dietro i più lenti e chi non sapeva delle secchiate d'acqua che lui, prontamente, rovesciava dal suo balcone insieme agli insulti. E come non ricordare “la signorina delle undici e mezza”? Quasi tutte le mattine, alla stessa ora nella tarda mattinata, una signorina attempata, ma ben vestita, con cappellino e borsetta, e ben curata, forse in modo eccessivo e non al passo coi tempi, appariva lungo la via Garibaldi e si dirigeva verso la chiesa di San Vito. La chiamavamo “la signorina delle undici e mezza” perché, quando noi la avvicinavamo per chiederle l’ora, lei, guardando il suo vecchio orologio da polso, non funzionante, ci rispondeva sempre: "le undici e mezza". Per giuoco, noi la seguivamo per continuare a chiederle nuovamente l'ora e ridevamo allontanandoci perché la risposta era sempre quella. Anche lei era diventata una di noi, perché ci sorrideva mentre noi ripetevamo quel gioco in modo educato, rispettoso, scambiandoci la parte lungo il percorso che portava verso Santa Maria.


Il mare di Cicerata

Al mare andavamo tre volte la settimana. Cantando le canzoni del Grest, percorrevamo, in gruppi ordinati, più di 4 km, lungo il fiume Idria, per raggiungere la spiaggia. Quando arrivavamo sulla spiaggia di Cicerata, ci spogliavamo in fretta e furia e, tutti insieme, ci tuffavamo nell’acqua fresca e limpida. Provavamo un gran sollievo dal caldo e dalla sudata generata dalla lunga, ma piacevole camminata per raggiungere la tanto desiderata meta. Anche fare il bagno a mare, allora, era un lusso.

Nell'acqua era una continua gioia: si annaspava, si rideva, ci si spingeva l’un l’altro e, colpendo l’acqua con il palmo della mano, ci schizzavamo addosso piacevoli ‘schiaffetti acquosi’ a vicenda e ci rincorrevamo dentro il liquido salato, schiamazzando di gioia. Seguivano i tuffi dalla piramide umana, con la turnazione e sostituzione veloce di chi stava sotto, o il lancio con tuffo e capriola da un trampolino mobile, formato da braccia che davano la spinta, mettendo in mostra coraggio, abilità e temerarietà. Gareggiavamo dividendoci in due squadre con una giuria che giudicava ed assegnava premi per i tuffi sincronizzati più belli e per l'entrata in acqua in perfetto assetto verticale.Ci mettevamo in mostra eseguendo, con fluidità e coordinazione, movimenti acrobatici, avvitamenti volteggianti, frutto di doti naturali e preparazione tecnica. Potenza, flessibilità, agilità, controllo e concentrazione interagivano, esprimendo il vincitore. Quando la pelle lucida e liscia delle dita si raggrinziva per effetto dell’immersione prolungata in acqua e diventava bianca, con pieghe simili alle rughe, sentivamo il suono del fischietto che ci invitava ad uscire immediatamente e senza tentennamenti. Ci si sdraiava allora, a gruppi, sulla rovente sabbia, ci si asciugava lentamente con la calura estiva, che faceva evaporare le gocce che accarezzavano i nostri fragili corpi bagnati. In gran silenzio, sentivamo la pelle salata tendersi e pungere mentre si asciugava sotto il sole e, quando la grattavamo, ci lasciavamo catturare dall’apparire del bianco sulla pelle abbronzata e allora muovevamo le unghie creando disegni estemporanei, come piccole opere d'arte destinate a sparire, seguite da un piacevole prurito, provocato dal sale. Il suono del mare, con il fruscio delle onde che accarezzavano la spiaggia, era come una dolce ninna nanna da carillon che ci faceva assopire e poi risvegliare, pronti per un’altra immersione. Il mare era così limpido che non era necessario usare la maschera per vedere il fondale ed i pesciolini che, guizzando, ci sfioravano mentre nuotavamo. Andavamo lontano fino a quando vedevamo le persone sulla spiaggia rimpicciolirsi sempre di più, come dei puntini lontani. Era bello farsi dondolare dalle onde e sentirsi accarezzare dall’acqua mentre galleggiavamo, senza compiere alcun movimento. I grossi cavalloni erano un divertimento per i più audaci: li aspettavamo per tuffarci dentro e riemergere a distanza. E quando, stanchi, ritornavano a riva, ci sdraiavamo di nuovo sulla spiaggia rovente per asciugarci, guardando estasiati il cielo azzurro. Ci capitava, a volte, di assopirci per la stanchezza e per il caldo, sentendo il profumo del mare e l'aria piena di salsedine che ci solleticava piacevolmente i corpi seminudi. Assopiti, sentivamo lo scricchiolio della sabbia calpestata dai passanti, misto al suono del leggero venticello, simile al fruscio delle setole strisciate sui piatti di una batteria acustica. Un suono inconfondibile che si accordava con il sibilo del venticello, dolce e fine, che modificava il volume se il calpestio si allontanava o si avvicinava. E, quando ci svegliavamo, ci sembrava di essere in un posto diverso, perché le dune che ci circondavano, nel frattempo, avevano modificato il loro aspetto, per effetto del vento che, rallentando, lasciava cadere i sedimenti raccolti lungo il tragitto e modificava così il paesaggio.

Per consumare il nostro pranzo a sacco, ci spostavamo di fronte, presso le case coloniche dei signori Bisignani, a Cicerata. Quelle cascine erano circondate da campi coltivati ad angurie e meloni gialletti, pomodori e lattughe estive. C’erano siepi di glicine, roseti ed alberi di tamerici, orti e pescheti. Ricordo il profumo del glicine e del pescheto e l'odore dei meloni gialletti.

Al centro della cascina patronale c’era un pozzo con un galletto di latta sopra ed un secchio con allacciata una corda sulla carrucola centrale per tirare l'acqua fresca dal pozzo e rinfrescarci, dissetarci o per far scivolar via il sale dalla nostra pelle. Quella era la nostra base, il nostro luogo di riposo pomeridiano. Lo animavamo con i nostri canti e con i nostri giuochi, stanchi per i tanti tuffi a mare, prima e dopo pranzo. I fratelli Puliafito vincevano tutte le gare di canto per la loro stupenda voce. Verso le 18:00 ci si rivestiva e si prendeva la strada del ritorno, lungo il fiume Idria, cantando, felici ed allegri, quanto e più di prima, per aver goduto di una giornata al mare rinfrescante e di una avventura vissuta in modo quasi temerario.


Un’ estate a Pollara di Salina

Gli organizzatori facevano di tutto per innovare e non annoiare e per questo, una di quelle meravigliose estati, organizzarono per noi una escursione di tre settimane a Pollara di Salina. C’eravamo quasi tutti, con padre Spada e gli organizzatori di sempre. Dopo essere sbarcati sull’isola dopo un eccitante viaggio in mare sulla nave, siamo stati per tre giorni nella canonica di Rinella, per poi spostarci a Pollara percorrendo una lunga salita e una ripida discesa, con una grande, pesante valigia. In quei luoghi, anni dopo, fu girato l'ultimo film di Troisi, con la nostra Maria Grazia Cucinotta, “Il Postino”: come se anche Troisi avesse espresso il desiderio di vivere in quel paradiso prima di morire!

A Pollara dormivamo per terra, su dei materassini ‘double face’, di tela da una parte e di gomma dall’altra, che gli organizzatori avevano comprato a Messina da un fornitore esclusivo: una novità assoluta per quei tempi.

Li gonfiavamo con il nostro fiato e i capogiri per lo sforzo erano frequenti, per questo ci aiutavamo a vicenda. La notte si dormiva poco: si rumoreggiava grattando i materassini e il divertimento continuava fino a tarda ora. Giravamo con addosso il lenzuolo bianco per imitare i fantasmi e spaventare alcuni compagni più paurosi. Il materassino veniva usato anche di giorno per nuotare, saltare e tuffarsi in acqua. I più temerari raggiungevamo Rinella, via mare, remando con le braccia sul materassino gonfiabile, in soli dieci minuti, contro le due faticose ore che occorrevano, a piedi, sull’unica strada di collina. La differenza in tempo e fatica faceva diventare temerari anche i più paurosi. A pranzo e cena, come frutta, avevamo solo fichi e fichi d’india: l’anguria era per i giorni di festa. Dopo quindici giorni, desideravamo le pietanze di casa nostra, anche se non ci mancava niente. Fu grande festa quando il signor Carmelo Sacco, mio padre ed altri genitori, fra cui il signor Caruso, detto Bombetta, vennero a trovarci con due scatoloni di brioche e dolci prelibati comprati dai fratelli Spadaro.

Ci ha temprati e maturati quell'esperienza, tanto che nessuno di noi l’ha mai dimenticata. Avevamo le “grest-lire”, che ci guadagnavamo con i buoni comportamenti o per aver vinto o partecipato a delle gare. Le spendevamo al piccolo bar della Canonica, che offriva a tutti noi la possibilità di fare merenda con gelati, ghiaccioli, bibite e bomboloni.

Per l’ultima giornata veniva preparata la festa finale, con i vari animatori che lavoravano con passione per realizzare qualcosa da poter mostrare alla comunità: che fosse un balletto, uno sketch o una canzone poco importava: doveva solo essere fatto con gioia e voglia di impegnarsi. Gli animatori erano coordinati del grande animatore-regista, il prof. Nino Saia, che aveva già pianificato la festa finale ancor prima che cominciasse il Grest.

Dopo la Santa Messa conclusiva, venivano rappresentate e recitate le varie scenette, balli o canti, e tutti venivamo sommersi da una pioggia di applausi. Venivamo tutti premiati. Dopo la premiazione, la serata giungeva al termine e tutti ci ritiravamo, stanchi, ma felici, in direzione delle nostre case. Ma il Grest non si concludeva con la festa finale: in realtà, il Grest non finiva mai! Era sempre dentro di noi come palestra formativa, non si poteva mai dimenticare. Come non si possono mai dimenticare i compagni di sempre e i protagonisti-organizzatori.

Con il Grest, andavamo in scena e mettevamo sul palcoscenico della vita tutti i doni che Dio ci aveva dato. Non eravamo numeri, ma avevamo i numeri per fare della nostra vita un capolavoro. Lavoravamo e ci divertivamo per aprire i sipari dei teatri della vita, esibendoci con ogni forma d’arte possibile. Eravamo l’anima delle nostre parrocchie, coloro che svegliavano i quartieri per settimane o per mesi interi, portando in scena l’arte di vivere.

Chiedere per credere!

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