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Una voce comune sul “fine-vita” Un documento delle religioni monoteis

Lo scorso 28 ottobre in Vaticano i rappresentanti delle religioni monoteiste Abramitiche (cristiani, musulmani ed ebrei) hanno firmato congiuntamente una dichiarazione sulle problematiche inerenti il “fine-vita”. È in un contesto come quello italiano e occidentale, in cui i temi eutanasia e/o “suicidio assistito” sono ciclicamente ricorrenti, che i rappresentanti religiosi hanno voluto, con una voce unica, dire la propria cercando di indicare una direzione, pur essendo consapevoli di prendere posizioni non pienamente in linea con le più frequenti prassi e con i valori dominanti nel momento attuale. Il documento si apre con una chiara e veritiera fotografia sull’oggi: si sottolinea in particolare che le tematiche riguardanti il “fine-vita” presentano problemi non facili, intensificati dai progressi scientifico-tecnologici che rendono possibile il prolungamento della vita in situazioni finora impensabili. Ancora evidenziano come ormai le persone nei paesi sviluppati muoiano in ambienti impersonali e per niente familiari venendo “attaccati a macchinari, circondati da persone indaffarate e poco familiari”. C’è poi un “maggiore coinvolgimento di diversi professionisti nel trattamento del paziente in fase terminale” dei media, del sistema giudiziario e dell’opinione pubblica, e infine ci sono sempre meno risorse per portare avanti terapie costose.

E così pur riconoscendo i progressi della scienza nella prevenzione e nella cura della malattia, ritengono di dover riconoscere che ogni vita dovrà alla fine comunque sperimentare la morte, e che pertanto: “un approccio olistico e rispettoso della persona deve riconoscere come obiettivo fondamentale la dimensione straordinariamente umana, spirituale e religiosa del morire”. Un passaggio fondamentale del documento è quello in cui ci si sofferma sulle valutazioni atte a verificare se i trattamenti a sostegno del prolungamento della vita effettivamente raggiungono l’obiettivo: “quando la morte è imminente malgrado i mezzi usati, è giustificato prendere la decisione di rifiutare alcuni trattamenti medici che altro non farebbero se non prolungare una vita precaria, gravosa, sofferente”; a questo si aggiunge però che il personale sanitario e in generale la società dovrebbero avere rispetto - “utilizzando misure mediche clinicamente appropriate” - per il desiderio di un paziente morente che voglia prolungare e preservare la propria vita anche se per breve tempo.

Da ciò discende che tali questioni non dovrebbero essere dominio esclusivo del personale sanitario, la cui responsabilità consiste nel fornire la massima assistenza al malato; pertanto, affermano, da un lato che l’eutanasia ed il suicidio assistito sono moralmente ed intrinsecamente sbagliati e che dovrebbero essere vietati senza eccezioni così come qualsiasi pressione o azione sui pazienti per indurli a metter fine alla propria vita, e dall’altro che nessun operatore sanitario dovrebbe essere costretto ad assistere alla morte intenzionale di un paziente attraverso il suicidio assistito o qualsiasi forma di eutanasia, specialmente quando tali prassi vanno contro le credenze religiose dell’operatore sanitario stesso (obiezione di coscienza). Al contrario i rappresentanti ci tengono a incoraggiare con forza l’applicazione di politiche pubbliche che proteggano il diritto e la dignità del paziente nella fase terminale, evitando l’eutanasia e promuovendo una qualificata presenza di cure palliative ovunque e per ciascuno e a fornire conforto, sollievo al dolore, vicinanza, assistenza spirituale alla persona morente e ai suoi familiari. L’impegno dal punto di vista sociale che essi principalmente si assumono, sottoscrivendo il documento, è quello di coinvolgere le comunità sulle questioni della bioetica relative al paziente in fase terminale, nonché sulle modalità di compagnia compassionevole per coloro che soffrono, affinché il desiderio dei pazienti di non essere un peso non susciti in loro la sensazione di essere inutili, generatrice della conseguente incoscienza del valore e della dignità della loro vita, che merita di essere curata e sostenuta fino alla sua fine naturale. Con questa dichiarazione congiunta dunque è evidente come prima di tutto si voglia richiamare il significato più autentico della medicina: è mons. Paglia, in rappresentanza dei cattolici, ad affermare di essere ampiamente consapevoli di essersi mossi in un’area in cui è difficile separare le cose in modo netto. Ma questa mai finita ricerca di senso, che proprio la malattia mette in questione, è un compito svolto dalla cultura nel suo complesso e in questo quadro la medicina “non è tenuta - conclude - a ripristinare ad ogni costo la salute o a prolungare indefinitamente la vita, ma a prendersi sempre cura della persona, anche quando la malattia è inguaribile”. Lo stesso prelato, nel suo intervento, ha voluto sottolineare - e non poteva essere diversamente - anche l’importanza della dimensione ecumenica ed interreligiosa di questo evento che ha consentito, coltivando la “cultura dell’incontro” tanto cara a Papa Francesco, di scoprire aree di convergenza e di comunione che rendono un servizio a tutti gli uomini nei quali tutti siamo chiamati a vedere figli di Dio, così da poterci sempre più riconoscere fratelli.

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