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Abele come Caino, Caino come Abele

Caino e Abele (Gen. 4, 1-16) sono i due biblici fratelli che nell’immaginario collettivo rappresentano gli archetipi della ferocia traditrice (Caino) e dell’innocenza (Abele). Legittima tale interpretazione, ma riduttiva della funzione di senso che alcune parole ed espressioni del testo suggeriscono a chi si chiede dove stia la giustizia. Abele (dall’ebraico habel, soffio, alito), come suggerisce il nome, rappresenta la fragilità di un rapporto con cui Caino deve confrontarsi: non è più figlio unico, ma fratello maggiore, chiamato a prendersi cura di Abele, così come noi dei nostri fratelli.

“Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta” (Gen 4, 4-5). Non si può nascondere lo stupore di fronte a queste parole; si può attribuire a Dio un comportamento discriminatorio? La diversa misura nella distribuzione dei talenti (Mt 25, 15) non ne inficia la qualità: si tratta della stessa Grazia, ripartita secondo un criterio che può rimanere oscuro, ma che, per essere pienamente compreso, fa appello alla disposizione dell’uomo di abbandonarsi con fiducia al Signore. Dio è con noi anche quando ci sentiamo messi da parte e alimentiamo la malizia; si prende cura, infatti, di Caino e ha per lui le parole di un Padre che conosce la sofferenza del figlio (“Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto?”): lo mette in guardia dal peccato, pronto a impossessarsi di lui, e gli ricorda la via della salvezza nella forza di dominarlo.

Tra la volontà di Dio di stabilire un contatto con il defraudato Caino e l’esecuzione del fratricidio c’è la voragine del rancore. Aprire il cuore a Dio, chiedere una spiegazione, avrebbe potuto salvare Caino da sé stesso? Tutto precipita; l’essenzialità del testo ci catapulta nella scena madre: “Caino si alzò contro il fratello Abele e lo uccise”.

Non tarda l’intervento di Dio: “Dov’è Abele, tuo fratello?” sono le parole del Padre che chiede consapevolezza al figlio. La risposta di Caino è menzogna, è tentativo di allontanare da sé la responsabilità; sembra che voglia dire a Dio: “Avresti dovuto essere tu il custode di Abele e impedire che ciò accadesse, perché noi siamo tue creature”. Arroganza mascherata di fragilità: chi di fronte a una disgrazia o a eventi storici tragici non si è chiesto: “Ma Dio, dov’era? Perché ha permesso questo?”.

Poi il giudizio divino; esso trova espressione in una pena che si configura come lo stato di infelicità in cui vive il genere umano schiacciato dalla colpa (Gen 4, 12). Perché non una pena più severa? O la gravità di essa consiste nello stare lontano da Dio? (Gen 4, 11). Dio non si dimentica della sua misericordia; è un Padre che vuole salvare a tutti i costi il proprio figlio e, quando Caino, forse per pentimento forse per timore delle conseguenze, riconosce che la gravità della sua colpa lo espone alla vendetta di chiunque, pronuncia una sentenza contro coloro che oseranno alzare la mano contro quel figlio (Gen 4, 15); quindi segna la sua fronte.

Cosa indica questo segno? L’imperscrutabilità del giudizio di Dio? Che il potere sulla vita e sulla morte appartiene a Dio solo? Che anche Caino è fatto a somiglianza di Dio? Il segno è un monito a non puntare l’indice contro l’altro: siamo tutti luce e tenebra. Anche Abele, come Caino.


di Tinuccia Russo

 
 
 

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Creato da Filippo Maniscalco

Gestito Antonino Cicero

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