Aiace, una lezione alternativa
Un fenomeno che, dalla mia esperienza, reputo ormai diffuso è quello che imperversa tra i giovani, quello di allontanarsi sempre più dalla cultura e dal sapere, specialmente dalla cultura classica, che invece è sempre attuale e riadattabile alle varie circostanze della vita.
Tra le varie attività che l’Istituto “E. Medi” ha programmato per l’anno scolastico, rientra la partecipazione alla rappresentazione teatrale dell’”Aiace” di Sofocle, al teatro greco di Siracusa.
In breve, una tragedia, la cui trama si sviluppa attorno alla dolorosa vicenda di Aiace che, reduce della guerra di Troia, si adira contro i propri compagni e decide di ucciderli, dato che non ha le armi del pelide Achille (che gli vennero date ad Odisseo), ma la dea Atena trasforma gli uomini in buoi. In preda al senso di colpa, cade in uno stato di sofferenza che lo porta a suicidarsi (non tenendo conto delle continue esortazioni che Tecmessa e i suoi compagni gli fanno). Verso la conclusione si discute sul destino del cadavere di Aiace, se seppellirlo o meno, cosa che poi si realizzerà grazie all’incessante operosità del fratello Teucro e grazie all’intervento di Ulisse, che non tenendo conto del cattivo sangue che c’era tra i due, suggerisce ad Agamennone di concedere a Teucro la possibilità di seppellirlo.
Dal mio punto di vista, già il solo arrivo in teatro ha suscitato in noi stupore, meraviglia e curiosità nel vedere quell’impressionante scenografia, caratterizzata dall’insanguinata tenda in cui dimorava Aiace, ma che nascondeva qualcosa di ancora più strabiliante, le ossa del povero Aiace dopo il suo suicidio. Una scena davvero toccante è quella in cui appare la graziosa Eurisace (la figlia che ebbe Aiace con Tecmessa) nelle vesti della figlia del regista-attore, di appena un anno. Un aspetto che a me è particolarmente rimasto impresso è l’ampia e timorosa considerazione che avevano i personaggi nei confronti delle divinità, rimanendo stranito, visto che come emerge dai nostri studi vengono caratterizzate le divinità come delle figure capricciose, imprevedibili, che pur sempre c’è un’entità superiore, quella del Fato. Questo loro forte attaccamento e la considerazione che avevano sulle loro divinità ha fatto sì che riflettessi sul nostro essere cristiani, soprattutto in quelle occasioni in cui rinneghiamo Dio con le opere e i pensieri, alle volte, disprezzandolo anche per futili motivi.
Due domande mi sono sorte: “Chi è Dio per noi e che facciamo nella nostra vita da cristiani?“. “Come mai, in certe occasioni, non consideriamo la presenza di Dio nelle nostre vite e alle volte neghiamo a Lui stesso di dimorare in noi stessi, differentemente dai greci che erano così riverenti e attenti nei confronti delle loro divinità, pur conoscendo il loro “modus operandi”?
Un ultimo aspetto mi è particolarmente rimasto impresso: il lungo stato di sofferenza che Aiace ha vissuto dopo la strage delle bestie, a causa del senso di colpa e dalla gravosa presenza della coscienza.
di Gabriele Alberto
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