Annuncio come racconto: per una catechesi dell’amore
Una parola greca, che pochi conoscono, costituisce il cuore della vita di ogni credente: kerygma; il suo originario e generico significato di “annuncio”, nella tradizione cristiana, ha assunto una valenza specifica, quella di “primo annuncio delle verità di fede” per le persone che non conoscono Cristo.
Ad un certo punto della nostra vita, infatti, abbiamo incontrato chi ci ha annunciato che Gesù è morto, è risorto e siede alla destra di Dio Padre; il pensiero, allora, corre al nostro catechista o all'insegnante di religione. Un’altra immagine, tuttavia, mi viene in mente: quella di una mamma che, unendo le manine del proprio figlio in atto di preghiera, pronuncia il nome di Gesù, o del nonno, che racconta al proprio nipotino uno dei miracoli compiuti da nostro Signore. Il primo annuncio, dunque, costituisce il primo passo verso la conoscenza e da questa, grazie alla luce dello Spirito che agisce in noi, verso la rivelazione. San Paolo, che nei suoi lunghi viaggi nel Mediterraneo annunciò Gesù ai pagani, può essere considerato il primo missionario kerigmatico. In Atti 17,22, Luca riporta il discorso che l'Apostolo delle Genti pronunciò davanti ai Greci, riuniti nell’ Areopago ad Atene; esso acquista particolare rilievo in ordine all’approccio, agli argomenti e alle aspettative di colui che si fa portatore dell’annuncio. Leggendolo con attenzione, notiamo che Paolo assume come punto di partenza l'universo culturale dei suoi interlocutori, utilizzandone linguaggio e temi, non per fare opera di persuasione, non per cercare il consenso con lusinghe, col riconoscere loro il possesso di una verità; al contrario, egli mette in rilievo quella che è una vera e propria ammissione di ignoranza da parte dei Greci (“Passando infatti e osservando i vostri monumenti sacri, ho trovato anche un altare con l'iscrizione: «A un dio ignoto»”, Atti 17,23), per annunciare loro la Verità: “Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio” (Atti 17,23).
La conoscenza e l'uso dei valori propri della cultura e della religiosità greche da parte dell’apostolo non sviliscono il messaggio evangelico, ma costituiscono lo strumento ideale per accostarsi all'altro, per accoglierlo e donargli l'annuncio del Dio della pace. Senza lieto fine. Quando Paolo, infatti, arriva al cuore dell'annuncio, al kerygma, e parla della resurrezione di Cristo, i Greci lo deridono e vanno via: “Su questo ti sentiremo un'altra volta” (Atti 17,32); solo pochi lo seguono. La situazione oggi non cambia; “annunciare” è difficile, tanto più se si parla di resurrezione. Siamo troppo legati alle cose della terra. Bisognerebbe, da un lato, assumere come modello lo stile assertivo di San Paolo, dall’altro porre come obiettivo da raggiungere l'annuncio in se stesso e chinare umilmente il capo di fronte all’ imperscrutabile opera dello Spirito, senza cercare un immediato riscontro. L'annuncio dovrebbe farsi racconto delle meraviglie del creato, dell'amore di Dio che ha donato se stesso per salvarci, dell'amore di Dio che diventa tangibile nella conversione di tanti che in Lui hanno ritrovato la Vita. Il racconto permette, infatti, di evitare il pericolo dell'indottrinamento, perché stabilisce tra chi ascolta e chi porge l'annuncio una relazione empatica, che arricchisce anche il secondo, non meno bisognoso di Amore rispetto al primo. La catechesi diventerebbe “catechesi dell'Amore”, che parla al cuore degli uomini: di coloro che non hanno mai incontrato Gesù; di coloro che, inconsapevolmente innamorati di Cristo, si perdono, cercando altrove il loro bene; di coloro, infine, che pensano di conoscerlo, ma spesso non lo vedono. Tinuccia Russo
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