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“Chistu unn’è me figghiu” (Questo non è mio figlio)

Coloro che sono poco inclini all’esercizio della riflessione non riescono a cogliere il profondo legame tra realtà in apparenza distanti; i particolari sono così destinati a dissolversi, l'uomo a vivere senza il conforto della capacità di cucire insieme i frammenti dell'esistenza e raggiungere un pur minimo controllo su se stesso. Da una parte ci sono gli “omini di panza”, “i lupi senza pietà”, uno accanto all'altro, nel loro abito scuro, col viso composto in una smorfia di beffardo compiacimento; dall’altra, c'è una mamma accanto al corpo del figlio ridotto in brandelli di carne; niente di più distante, secondo la logica della visione parcellizzata del mondo, per cui crudeltà e tenerezza, forza e fragilità non possono ricomporsi in unità.

Felicia vide il proprio figlio crescere e intraprendere una strada che lo avrebbe portato allo scontro con il padre; ella capì subito che non si trattava di un normale scontro generazionale per affermare la propria identità, ma del netto rifiuto della logica criminale della famiglia in cui era nato. Peppino divenne ben presto emblema di riscatto sociale: fu forza, per i siciliani che avevano solo braccia per faticare e schiena curva sotto il peso della sopraffazione, fu voce per chi, costretto all’ignoranza, non aveva parole per denunciare, pur sentendo, pur vedendo.

Naturale chiedersi come Felicia avrà vissuto, da madre, il conflitto accesosi in famiglia, con chi si sarà schierata; non ci sono dubbi; in cuor suo, pur temendo, avrà vissuto le stesse emozioni del figlio, avrà sentito il suo cuore battere all’unisono con quello del figlio quando era il momento del coraggio, si sarà compiaciuta della caparbietà di Peppino nel perseguire i suoi obiettivi, avrà ritrovato il ritmo naturale del respiro ad ogni ritorno del figlio. Il sentimento della giustizia non conosce sconti, non si bada a spese quando si intraprende la strada di un ideale, si paga con tutto ciò che si possiede, anche con la vita.

Felicia ha continuato l’opera iniziata dal figlio, ha lottato fino al suo ultimo respiro, per la verità e la giustizia, con le sole armi che possiede una madre, con l’abnegazione e con l’amore, perché non passasse il messaggio dei “lupi senza figli”, che, nel loro delirio di onnipotenza, fecero a pezzi il corpo di un uomo, come a volerlo annientare; non riuscirono però a distruggere l’eredità affettiva e culturale che Peppino lasciò in chi l’aveva conosciuto. Vere le parole della madre: “Questo non è mio figlio”; suo figlio era vivo, era la voce che gridava nella piazza, l’uomo che lottava con “gli uomini di panza che non valgono neanche un soldo”, che alla radio denunciava i loro soprusi, i loro loschi affari, che aveva creato un circolo di musica e cultura per additare ai ragazzi e alle ragazze nuovi orizzonti, al di là degli angusti limiti della vita di paese. La strada che Peppino e sua madre Felicia, con la forza della loro esistenza, additano a noi è quella della rivoluzione culturale, nel senso di un ribaltamento della cultura mafiosa: la fiducia contro il sospetto, la solidarietà contro l’individualismo, la logica della libertà contro la logica della soggezione.

Una rivoluzione culturale che può concretizzarsi anche grazie al contributo dell’educazione di genere, che promuove la riflessione dell’individuo sui propri valori, sul proprio punto di vista, sulla propria esperienza per acquisire la capacità di aprirsi al diverso da sé e scorgere in essa l’occasione di un rafforzamento reciproco; che mette in discussione il modello egemonico della maschilità, a cui è legata l’idea della violenza, della sopraffazione, della spietatezza per promuovere relazioni basate sulla comprensione, la collaborazione, la mitezza. Grazie Peppino, grazie Felicia.

di Tinuccia Russo





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