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Credo, Signore!

Quand'è che noi cristiani possiamo essere certi di avere la fede, quando crediamo nell'esistenza di Dio e di Gesù oppure quando crediamo come Gesù credeva e viviamo come Lui viveva? Possiamo dirci credenti solo se, conquistati dal Maestro, dal suo modo di vedere la vita, di agire e di amare, ne facciamo la norma della nostra vita. Credere in Gesù significa fidarci di Lui, del suo modo di vedere l'uomo e la storia, attratti dalla sua bontà verso tutti: ebrei e pagani, buoni e cattivi, giusti e peccatori. Tutto questo è da Gesù espresso la sera del Giovedì Santo con il: «Prendete e mangiate di me; prendete e bevete di me». Identificatevi con me, siate per ogni uomo pane spezzato che comunica vita e vino versato che dà gioia, come vedete che io sono. Nell'episodio del servo del centurione (Mt 8,5-13 ;  Lc 7,1-10), Gesù esaudisce il desiderio di un pagano, un cane e un porco, come con disprezzo veniva chiamato dagli ebrei, un idolatra le cui mani sono sporche del sangue di tanti suoi correligionari. Eppure, nonostante ciò, Gesù dirà di lui: «Non ho trovato in Israele una fede così grande». Gesù non vede nel centurione l'invasore, l'assassino, l'idolatra, ma un uomo buono che soffre perché il suo servo sta male. E subito Gesù interviene perché è in gioco una relazione d'amore amicale minacciata dalla morte. Così anche per la figlia della cananea (Mt 15,21-28 ) o per il samaritano lebbroso (Lc 17,11-19), un eretico, uno che, secondo i giudei, non ha religione perché escluso dal tempio, il quale, invece, come farebbe qualsiasi persona normale, torna a ringraziare Gesù che gli dice: «Alzati e và, la tua fede ti ha salvato».

Insieme alla fede intesa come a un insieme di verità e alla dogmatizzazione di queste, vi è soprattutto questo aspetto della fede il cui sapore evangelico ci conduce su strade più accessibili e utili alla nostra crescita spirituale e umana. Attraverso esempi come questi, Gesù ci comunica che vivere una religiosità fatta solo di pratiche esteriori non fa di noi delle persone di fede, perché quando preghiere, riti e gesti religiosi, che di norma poniamo in essere, non trovano il loro naturale sbocco in una vita vissuta nell'amore e nella prossimità a coloro che soffrono, come ha fatto Gesù, rischiamo di diventare dei praticanti, ma privi della fede.

E' possibile credere in Dio e vivere come se non ci fosse, pregare per ore e ignorare chi implora il nostro aiuto, fare elemosine alla Chiesa e sfruttare senza rimorso il prossimo, credere in Dio e nel denaro. Per dirla con Gesù: «servire Dio e mammona». Illuminante l'episodio del cieco nato guarito di Sabato, abbandonato da tutti, anche dai genitori, il quale viene processato e scomunicato dai capi religiosi del tempio. Ma nel momento in cui la religione lo espelle come un corpo estraneo, Gesù gli si fa accanto e lo accoglie nella sua vita. In questo brano (Gv 9,1-41), l'autore ci dice che si diventa credenti solo quando si è capaci di pagare di persona per la propria fede, se si è disposti a subire l'indifferenza e l'avversione della comunità, anche di chi ci ha generati, ma non si è disposti a rinnegare Colui che ci ha ridato la vista e la vita aprendo, in tutti i sensi, i nostri occhi. I religiosi minacciano sanzioni e lo vogliono obbligare a mentire per «dar gloria a Dio» (Gv 9,24), l'ex cieco, invece, che non ha paura dei suoi accusatori e non intende compiacerli perché ormai, lui sì, è nella Verità, è pronto finalmente a fare la sua professione di fede: «Ani ma'amin, Adon'ì - Io credo, o Signore».



di Santino Coppolino

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