Diventare prete Una scelta controcorrente
Proprio mentre sistemavo alcuni dei miei libri, mi ritrovo tra le mani un testo che, seppur molto recente, avevo quasi dimenticato: l’esortazione apostolica post sinodale “Christus vivit”. Decido di sfogliare alcune pagine anche per trarre degli spunti utili per le catechesi che, di tanto in tanto, siamo invitati a fare nelle varie parrocchie. Inizio la mia lettura e, tra tutte quelle parole, ne salta all’occhio una: vocazione. Spesso ne parliamo e sappiamo che, in senso generale, si tratta di una “chiamata” che il Signore rivolge a tutti. A volte, in maniera erronea, indichiamo come vocazione solo quella al sacerdozio ministeriale (a diventare preti), ma non è così. Il Papa sottolinea che la vocazione “comprende la chiamata alla vita, la chiamata all’amicizia con Lui, la chiamata alla santità, e così via” (CV 248). Tutti chiamati a vivere in comunione con Lui in ambiti diversi: familiare, lavorativo, ministeriale ecc., ma tutti pronti ad “essere per gli altri”. La vocazione alla vita presbiterale non è “la somma vocazione”, “la più importante”, “quella speciale”… si tratta di una chiamata come tante altre, speciale come tante altre, bella come tante altre, importante come tutte le altre. Certo, forse in questo momento storico è quella a cui nessuno più “risponde”. È sotto gli occhi di tutti che oggi i seminari siano “vuoti”. È un dato di fatto. Il problema non sono le vocazioni: il Signore chiama da più di 2000 anni sempre allo stesso modo; la difficoltà sta nell’ascoltare la sua voce e avere il coraggio di rispondere. Siamo passati da seminari pieni di gente a “gente piena di seminario” e case di formazione vuote. Diventare prete è oggi una scelta che va controcorrente. L’idea di Chiesa che diamo è quella di un qualcosa di antico, legato al passato, che tende ad andare indietro, a chiudersi. Se questi sono i presupposti, perché un giovane oggi dovrebbe intraprendere la strada per diventare prete? Ricordo che una delle cose che mi frenava ad entrare in seminario era proprio ciò che credevo di trovare: ragazzi “perfetti”, luoghi tetri, modi di fare risalenti al medioevo. Credevo fosse tutto da buttare ma era comunque l’unica strada possibile per essere prete. Questo era ciò che vedevo dall’esterno, ma, una volta entrato in seminario, niente di tutto questo (per fortuna). È ovvio che i problemi ci siano. La Chiesa, i seminari, le parrocchie hanno diversi “angoli da smussare” e “pareti da scrostare”. Si tratta pur sempre di comunità fatte di uomini che, certamente, devono crescere alla scuola della Parola. Se un ragazzo ha nel cuore il seme di una vocazione, deve mettersi in cammino, dargli acqua, farlo germogliare. La vocazione è la chiamata ad essere felici lì dove Lui ci vuole; non rispondere a quel progetto che Dio ha per noi significa vivere una vita infelice, che non ci appartiene. Mi capita spesso, quando torno a casa, che qualcuno dei miei amici mi dica: “sei felice, si vede! Hai una luce diversa negli occhi”. E questo, non lo nascondo, tutte le volte che accade mi fa un certo effetto. Sono cresciuto a “pane e parrocchia” e ho gustato tutto ciò che di buono c’è stato ma anche tutto il marcio che nelle comunità, ahimè, esiste. Molte volte ho sentito e continuo a sentire frasi del tipo: “ma chi te l’ha fatto fare?”. Senza troppi misticismi direi che me l’ha fatto fare Lui; me l’ha fatto fare la voglia di un giovane ventenne di cambiare qualcosa, di cercare di fare tutto il possibile per “sgrassare” lì dove sembrano esserci solo incrostazioni. Ecco cosa, oltre alla propria storia vocazionale, spinge un giovane ad intraprendere la strada per diventare prete: la voglia dinovità,di “rinnovamento” … perché, come amava dire un santo prete: “Se ognuno fa qualcosa si può fare molto”.
di Louis Manuguerra
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