E’ asceso al cielo Per sempre Vivente nella storia
“Fate discepole tutte le genti, battezzandole nel Nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a custodire tutte quante le cose che ho comandato a voi; ed ecco: Io Sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 19-20). Gesù, a coloro che lo amano e lo seguono, ha promesso che non li abbandonerà. Ma in che modo possiamo oggi scorgere i suoi lineamenti, contemplare il suo Volto, sperimentare la presenza del Vivente? La fede delle prime comunità cristiane non si manifestava per un determinato credo, ma attraverso le relazioni d'amore che si instauravano fra i credenti: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri!“(Gv 13,35). Era il loro amore vicendevole che illuminava le loro esistenze ed edificava coloro che non erano cristiani. Gesù non è riuscito a realizzare pienamente il sogno del Padre, perché tolto di mezzo dal potere, ma ne ha lasciato l'eredità a coloro che aderiscono pienamente a Lui. Paolo, ancora più lapidariamente, affermava: “Com-pio nelle mie membra ciò che manca alla passione di Cristo” (Col 1,24), riferendosi non alla passione della croce, a cui nessuno potrà mai aggiungere nulla, ma alle fatiche apostoliche che ha dovuto patire per compiere la sua missione. Ad ogni credente spetta il proprio compimento. La riscoperta di Gesù, del suo Evangelo, del suo vissuto è il presupposto di qualsiasi rinnovamento nella Chiesa Cattolica, nelle Chiese e in ogni singolo credente. L'incontro con il Cristo della storia si impone, oggi più che mai, ai cristiani per riscoprire il senso della loro vocazione e missione che si svolge nel tempo e in mezzo agli uomini; la presenza del Vivente nella storia passa solo attraverso l'azione di noi che ci diciamo cristiani, per mezzo di un agire che ricalchi quello del Maestro. E poco valore hanno le varie professioni di fede se la vita non riflette il vissuto di Gesù: “Cristiano, infatti, non è chi parla come Cristo, ma chi agisce come lui. Ateo e credente, religioso e laico sono appellativi che riflettono una determinata cultura, un modo di pensare più che un modo di vivere. La Chiesa, infatti, non è composta da coloro che si professano seguaci di Gesù, ma quelli che continuano la sua opera "amorizzatri-ce" (cit.). Alla domanda che da venti secoli i cristiani si pongono: “Dove sei, o Signore?”, risponde sempre la Parola di Gesù: “Dove due o tre sono riuniti nel mio Nome (nel proseguimento cioè della mia persona e della mia opera) io sono in mezzo a loro” (Mt 18,20). Solo l'amore è capace di sgretolare la durezza dei cuori e rendere visibile il Volto del Padre nella storia. Anche Gesù è stato tentato di percorrere altre strade, quelle dell'apparato di potere, della violenza, della forza, delle operazioni prestigiose, mirabolanti con segni e gesti adeguati alla sua dignità di Figlio di Dio, segni e gesti che sarebbero serviti a piegare subito ogni opposizione e ottenere i più larghi consensi. Ma “l'insipienza” di Dio, dice San Paolo, cioè i mezzi umanamente irrisori attraverso cui il Padre porta avanti la salvezza, sono più efficaci di tutte le risorse messe in atto dagli artifizi umani (1Cor 1,25). La mentalità del mondo, che fa uso sistematico del potere e della forza, come vediamo nella guerra che stiamo vivendo, non serve ad accelerare la manifestazione del Regno di Dio, ma a ritardarne l'attuazione. La salvezza non avanza per mezzo della spada, come purtroppo hanno creduto e ancora credono molti cristiani, ma con il rifiuto sistematico della stessa. La Chiesa di Gesù non ha bisogno di essere una potenza per incidere nella storia: è vero il contrario, poiché il potere in sé stesso è diabolico in quanto infesta coloro che lo detengono con lo stesso spirito di ingordigia, sopraffazione e di morte di cui esso è colmo. Gandhi, Martin Luther King, Madre Teresa sono i grandi apostoli del nostro tempo, senza tuttavia alcun potere, all'infuori di quello che scaturisce dalla santità della loro esistenza spesa per i propri simili. L'autore della Lettera agli Ebrei, nel suo inno, precisa che Gesù non scelse di stare in mezzo agli uomini come un tiranno, un dio, di trionfo in trionfo, ma preferì la radicale spoliazione di sé e di ogni sua umana aspirazione. “Si svuotò” (ekenosen), dice il testo, e la kenosis è una abiura alla stima, agli onori, al comando, un comportamento che non è masochistico, ma il più rispondente alla sua missione. I "successi" nel Regno non sono legati alla forza, ma a prove di impotenza e di debolezza, perché questa è l'unica via che Gesù ci ha mostrato e di cui gli uomini hanno bisogno. L'esempio che il Signore ci lascia è certamente unico, ma non è di certo irripetibile. E' l'eredità, la consegna, il Comandamento Nuovo di cui ci ha fatto dono insieme a sé stesso: “Amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi” (Gv 13,34).
di Santino Coppolino
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