Il mio amato è mio ed io sono sua Dodî lî wa’anî lô
Il Cantico dei Cantici (in ebr. Shir ha Shirim) ha nella lingua ebraica il valore di un superlativo che potremmo tradurre con: il Cantico più bello, il Cantico per eccellenza. Gli otto capitoli che lo compongono sono una delle forme più alte, poetiche e profonde dell'esperienza dell'amore umano. A chi lo legge così com'è, si presenta come un semplice poema d'amore, nulla c'è che evochi, seppur minimamente, l'aspetto religioso o morale del racconto e Dio non viene mai nominato, se non una sola volta e alla fine del testo (Ct 8,6). Il libro è stato attribuito al re Salomone, ma la ricerca esegetica attuale ne data la stesura alla fine del periodo tolemaico in Palestina (III sec. a.C.). Fa parte delle Cinque Meghillot, i cinque rotoli: Cantico, Rut, Lamentazioni, Qohelet ed Ester, che a loro volta fanno parte dei Ketuvim, i Libri Sapienziali, e nella liturgia ebraica vengono letti durante le grandi feste. Lo sfondo letterario affonda le sue radici nei canti d'amore e nella poesia nuziale dell'Egitto e del vicino Medioriente, anche se molte sono le novità in esso contenute.
Il Cantico de Cantici è un vero dialogo d'amore tra l'amato e l'amata dove la Rivelazione biblica riceve ed assume al suo interno ogni realtà umana, anche l'eros, ma la trasfigura. L'amato è chiamato Salomone, in ebraico Shlomon, che significa uomo di pace) e l'amata Sulammita (Shulamith, colei che porta la pace). “E' un amore che sfugge ad ogni possibile schema perché si situa nell'ambito estatico, del divino” (cit.), un amore cioè che non è solo passione, godimento, rapimento dei sensi, ma è fatto di relazioni e di distanza, di prossimità e di distacco, di parole e di silenzi, di vita e di morte. E' il paradosso del rapporto tra gli amanti: un cercarsi e un trovarsi, un abbracciarsi per poi perdersi di nuovo. E' il medesimo paradosso che avviene nella Storia della Salvezza, la storia d'amore fra Dio e l'uomo, un amore “forte come la morte... una fiamma di Jahweh” (Ct 8,6). Oltre alla interpretazione letterale del testo, che nella tradizione esegetica ha una notevole importanza, trovano luogo anche l'interpretazione spirituale, quella simbolica e quella allegorica. Nonostante i tanti dubbi sulla canonicità del testo, fin dai tempi antichi la tradizione rabbinica ha visto in Dio l'amato e nel popolo di Israele l'amata, come si evince dai tanti riferimenti del testo alla terra di Israele, una terra dove “scorre latte e miele” (Es 3,8 ; Ct 4,11): è il tema dell'allegoria nuziale che i profeti, a cominciare da Osea, hanno ampiamente sviluppato. Sulla scia della tradizione ebraica, anche i Padri della Chiesa, da Origene in poi, hanno visto Cristo e Dio Padre nell'amato e la Chiesa e il singolo credente nell'amata. Non solo il Cantico, ma l'intera Scrittura ha sempre un significato altro, un senso più profondo di quello inteso dall'autore umano, e il credente è sempre chiamato a ricercare, come affermava il filosofo Emmanuel Lévinas, “l'al di là del versetto” (Letture e discorsi talmudici). Per questo motivo dobbiamo riconoscere che la ragione per cui il Cantico dei Cantici è entrato nel canone, sia quello ebraico che quello cristiano, è per la sua interpretazione simbolica e allegorica. Gli esempi si sprecano: i profumi e gli aromi dello sposo richiamano i profumi e gli aromi del Tempio (Ct 1,2); le stanze del re dove la sposa chiede di essere introdotta evocano il Santo dei Santi (Ct 1,4); l'amata che "sale" (già il verbo salire è evocativo) dal deserto allude ai tre pellegrinaggi obbligatori a Gerusalemme e all'uscita di Israele dall'Egitto (Ct 8,5). Per questo l'amore sponsale, con il suo marcato linguaggio del corpo e la sua sessualità, non è un ostacolo, ma un segno visibile dell'Alleanza d'amore tra Dio e gli uomini.
di Santino Coppolino
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