Il nulla o un invito al discernimento? Qohelet: impietoso quanto stimolante
“Hevel havalim, vanità delle vanità” è una forma di superlativo, propria della lingua ebraica, che potrebbe essere tradotta con: assoluta vanità, perfetto nulla. Così inizia e termina il Libro del Qohelet e nei dodici capitoli che lo compongono, il termine vanità ricorre più di trenta volte. Attribuito erroneamente a re Salomone, il testo è per certo del periodo postesilico scritto, presumibilmente fra il III e il V secolo a.C. , da uno o più autori ignoti che quasi certamente, per stile e linguaggio utilizzato, vivevano in Giudea, addirittura a Gerusalemme. Più che un nome proprio di persona Qohelet designa una funzione; il termine infatti deriva dal verbo ebraico Qahal che significa chiamare, convocare, radunare, e si può tradurre con: colui che convoca l'assemblea.
Lo sguardo disincantato e impietoso di chi scrive indaga fin nel profondo delle pieghe più segrete dell'esistenza umana smontando sistematicamente ogni possibile illusione. L'autore prende in esame “tutto ciò che si fa sotto il cielo” (Qo 1,13) cogliendo i limiti di quanto la tradizione umana considera fonte di felicità. Il ritornello, che quasi toglie il respiro e che apre e chiude il testo, ripete come un mantra ossessivo la parola chiave di tutto il libro: Hebel, vanità, vuoto, soffio, vapore, inconsistenza... “Il termine rimanda a una realtà fluida, impalpabile come la nebbiolina dell'alba dissolta dal sole o come una nuvola spazzata via dal vento o come una goccia di rugiada che evapora al primo calore o ancora come la scia spumeggiante della carena di una nave nel mare subito acquietata” (G. Ravasi). Ma rinvia anche all'idolo, inerte e inutile, e all'uomo (stessa radice di Habel = Abele) la cui esistenza è passeggera e labile come un soffio.
Il libro è tutto un susseguirsi di quadri che hanno come argomento principale l'inutilità dell'esistenza e della fatica umana. Nel testo non c'è uno schema definito, ma tratta di variazioni su di un unico tema: la vanità delle realtà umane. Tutto è illusorio: le ricchezze, la sapienza umana, l'amore e persino la vita. Questa è un eterno susseguirsi di azioni senza valore né senso che termina, se va bene, con la vecchiaia e infine con la morte, la quale colpisce tutti allo stesso modo e senza scampo: il sapiente e l'ignorante, l'intelligente e lo sciocco, il ricco e il povero, l'uomo e gli animali. Secondo Qohelet il bene e il male compiuti non hanno alcuna remunerazione durante l'esistenza terrena e questo pensiero gli viene dalla sua esperienza diretta. L'insondabile mistero di ciò che si trova oltre la vita gli dà tormento senza che egli riesca a vedere una soluzione alla meta finale cui ogni figlio di Adamo è destinato: lo Sheòl, il regno delle ombre. Nell'amara constatazione che nulla c'è di definitivo, riconosciamo tuttavia un invito al discernimento: come e su cosa fondare solidamente la vita? E' possibile per l'essere umano sperare in una realtà che riscatti i suoi giorni dall'ombra del nulla? Cosa o chi cercare nella vita? Su cosa o su chi fissare lo sguardo?
Per noi che ci diciamo cristiani soltanto una solida fede nel Dio di Gesù, che è Padre, può riscattarci da questa immane fatica che si presenta a noi senza una apparente soluzione. Più che tetro pessimismo, quello dell'autore del Libro del Qohelet è un sano realismo che invita l'uomo a non edificare la propria vita su ciò che è vano, a non sacrificarla all'inganno della ricerca di un benessere non duraturo, a non considerare come stabile ciò che invece è transitorio, ad accogliere le piccole gioie quotidiane come un vero dono di Dio.
di Santino Coppolino
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