Il volto del Misericordioso
L'umanità di Gesù è la realtà dove lo Spirito abita stabilmente e chi si pone alla sua sequela ha la possibilità di vivere come Lui in un modo così umano da lasciar trasparire il volto di Dio. Presentandosi così a Israele, Gesù sapeva di porsi come alternativa ai custodi dell'immutabile tradizione religiosa (già, i tradizionali-sti), al loro mondo, ai loro dogmi che consideravano gli uomini non tutti uguali davanti a Dio, dividendo trasacro e profano, puro e impuro, ebreo e pagano, peccatore e giusto. Per costoroDio era fondamento e garante della disparità e della disuguaglianza. Con quale autorità, allora, questo oscuro carpentiere autoproclamatosi rabbì, proveniente da un villaggio semisconosciuto della Galilea il cui nome mai appare nella Bibbia, osa prendere le distanze dalla tradizione dei padri? Gesù risponde rifacendosi alla testimonianza del Padre che conferma la sua Parola con le meraviglie compiute a favore del popolo sofferente. Gesù annuncia un Dio sconvolgente mai udito prima, un Dio "eretico", come sentenziano i teologi di regime. E' questo il primo e più importan- te punto della fede cristiana: che volto ha il Dio che Gesù presenta? Egli dice che il Padre suo non è il Dio di cui parla- no i dottori della Legge, il Dio che abita solo nel Tempio e di cui avere terrore, un Dio da placare con mortificazioni e preghiere, un Dio a cui sacrificare e sacrificarsi. Il Padre di Gesù, invece, vuol essere adorato nella fedeltà alla vita, sceglie come sua dimora prediletta il cuore dell'uomo, di ogni uomo, a prescindere da genere, razza, cultura, religione e situazione morale. Il Dio di Gesù non è nemmeno quello della Legge. Precisiamo: non è il Dio della Legge così come è stata interpretata e vissuta lungo i secoli che la separavano da Mosè, una Legge così esigente e minuziosa che nessuno era riuscito ad osservarla fedelmente. Pietro stesso a Gerusalemme lo confesserà ai cristiano giudei l: «Perché, dunque, tentate Dio imponendo ai discepoli un giogo che né i padri nostri né noi abbia- mo avuto la forza di portare?» (At 15,10). E Paolo è ancora più duro: «Il pungiglione della morte è il pec- cato e la forza del peccato è la Legge» (1Cor 15,56). Lascia perplessi l'immagine di questo Dio che co- manda agli uomini ciò che è impossibile da osservare, che si diverte a farli sentire peccatori, falliti, miserabili, che dà ordini per il solo gusto di imporre la sua volontà agli uomini costretti a vivere sempre nel terrore di peccare, salvo poi perdonare tutti, purché paghino con adeguati sacrifici. Il Dio di Gesù non è un vendicatore, un giudice spietato che pone la Legge al di sopra dell'uomo tenendo in mano le redini del terrore, ma quello di un Pa- dre che è solo ed esclusiva- mente buono, un Padre che ama con infinita tenerezza i suoi figli. Ritengo che a co- stringere una persona religio- sa, una di quelle zelanti dei diritti di Dio, ad allontanarsi inorridito dal Vangelo, basti la parabola del Figlio Prodi- go (Lc 15,11-32), una parabo- la molto più ricca della realtà di Dio di tanti trattati di teologia. Ciò che annulla in modo radicale le nostre immagini di Dio, che scon- volse gli ebrei allora, e non collima neppure con le nostre sotterra- nee idee su di Lui, è l'infinito amore di questo Padre nel cui petto arde un cuore di Madre. «Dio è buono, ma anche giusto!» affermano con granitica certezza i tradizionalisti (sempre loro...) di casa nostra. Ma a quale giustizia ci riferiamo: alla Sua o alla nostra ? Il figlio ribelle e spendaccione, il rispetto per la sua libertà, per la sua vita, per la sua ricerca di una felicità effimera, viene talmente prima dei beni, che il Padre è disposto a finanziare anche l'errore del figlio. E' il superamento della legge, anche della Legge di Dio: nessuno deve rimanere con Lui per forza. E poi il ri- torno dal Padre, che invece di ascoltare la sua confessione, ha urgenza di riassemblare i cocci rotti del giova- ne ristabilendolo nella sua piena dignità di figlio amato: è il primato del per- dono assoluto sulla giustizia, la ricostruzione del rapporto d'amore, coinvolgendo in questo anche e soprattutto il figlio maggiore, (che non vuole nemmeno entrare in casa per non contaminar- si) in nome dell'essere «Uno in Lui» in ebraico INSIEME si dice YAHAD, che alla lettera si traduce: UNO IN YAH- WEH). E' necessario, allora, far festa perché il figlio morto è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. Figlio, una dignità che nessun errore, nessun peccato, per quanto mortale, potrà mai cancellare. "Costui" (Lc 15,30), come con disprezzo il figlio maggiore chiama il figlio minore, è e rimane sempre figlio e fratello. Mio fratello.
di Santino Coppolino
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