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L’eutanasia ci riguarda

A breve, forse in primavera, saremo chiamati alle urne per esprimerci nel referendum sulla legalizzazione dell’eutanasia, affinché in Italia essa sia regolamentata da una legge come diritto dell'individuo all'autodeterminazione, alla libera scelta della qualità e della fine della vita. L’etimologia di questa parola dal dolce suono (dal greco “eu”, bene e “thanatos”, morte, vale a dire “la morte buona, non dolorosa”) esprime solo in parte ciò che comporta la sua pratica, ovvero l’induzione della morte, mediante la somministrazione di farmaci letali o attraverso la sospensione delle terapie, per porre fine alle sofferenze di un individuo consenziente. E’ vero che la fine del dolore procura in tutti una sensazione di sollievo; si tratta, tuttavia, di una risoluzione che genera laceranti interrogativi d'ordine morale e psicologico, deontologico e giuridico. Spesso viene usata, come sinonimo di “eutanasia”, l'espressione “suicidio assistito”, che presentandosi come un vero e proprio ossimoro (i due termini che la costituiscono veicolano concetti diametralmente opposti, in quanto il suicidio non può contemplare assistenza, altrimenti cessa di essere “uccisione di se stesso”) rivela il suo significato contraddittorio, risolvendosi in un omicidio vero e proprio, che volontà e richiesta della vittima non possono giustificare. Non basta l'impunibilità garantita da una sentenza o da una legge per mettere a tacere il dilemma morale, di natura bioetica, di chi si trova nella condizione di aiutare qualcun altro a togliersi la vita; pur non agendo volontariamente, quest’ultimo procura la morte, uccide. Al cristiano, a colui che desidera vivere una vita conformata al Vangelo, tocca confrontarsi con un duplice problema: da un lato quello della sofferenza, del dolore che annichilisce chi lo vive sulla propria pelle e chi è chiamato all'assistenza; dall'altro quello della responsabilità di staccare la spina, di somministrare il farmaco letale. Entrambi gli aspetti della questione richiamano un valore imprescindibile, inconfutabile anche di fronte ai casi più disperati di handicap e di malattia: la vita. L'eutanasia non è una soluzione alla sofferenza; manca all'uomo del nostro tempo la pazienza di Giobbe, intesa come capacità di accettare e affrontare il dolore, trovando in questo il vero senso dell'esistenza. E’ nella sofferenza che si intrecciano i rapporti umani più profondi e più duraturi tra chi soffre e coloro che portano conforto, è nella sofferenza che si sperimenta la vera gioia, che si comprende il significato della vita. Chi soffre, come Giobbe, fa esperienza della fragilità, dell'impotenza dell'uomo di fronte al mistero del divino, impara ad accettarsi come uomo, come creatura, ritrovando il proprio posto all'interno del mistero stesso. La sofferenza diventa così il luogo dell'incontro con la vita, con Dio, con la salvezza. E’ questo il paradosso della vera Sapienza: si vince quando si perde.









di Tinuccia Russo

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