La festa patronaleTeatralità dei riti e comunità
- taborsettepuntozer
- 28 set
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In ogni comunità convivono anime diverse: chi crede, chi cerca, chi dubita, chi resta distante. Eppure tutti finiscono immersi in ciò che davvero tiene insieme: la cultura. Non è erudizione, non è collezione di citazioni: è un linguaggio che parla al cuore e alla mente, e che mette a nudo persino chi finge di non averne bisogno.
Un romanzo che commuove, un film che inquieta, una poesia che consola: la cultura non chiede tessere né patenti di credente. Dostoevskij ci lascia davanti all’abisso del bene e del male, Caravaggio squarcia il buio con una luce che non ha bisogno di catechismi per colpire. Certo, qualcuno continuerà a ripetere che “serve la fede per capire”. Ma la verità è che quelle domande e quella luce non appartengono a nessuno, se non all’umano.
E la cultura non abita solo nei libri o nei musei, anche perché sempre meno gente se ne nutre. Vive anche nelle strade, nelle piazze, nei riti che tornano ogni anno e che tengono insieme i paesi.
Lo scorso 15 agosto sono stato a Novara di Sicilia per la festa patronale. La fede, in quel contesto, è un sottofondo appena udibile. La vera forza è la comunità: i lontani tornano, le strade si riempiono, ci si riconosce parte di una storia comune. La fede accende il rito, ma la comunità lo rende carne e insieme salsiccia, granite, luminarie.
E non è solo Novara. Non c’è festa patronale in Italia che non sia, prima ancora che devozione, messa in scena. Le statue sono attori immobili, i portatori i loro muscoli, il paese intero diventa coro. Si chiama rito, ma è teatro puro: la drammaturgia non è scritta da un regista, ma da secoli di ripetizione. In ogni paese d’Italia, presepi viventi, riti della Settimana Santa e sacre rappresentazioni sono spesso tenuti in piedi da chi passa l’anno a bestemmiare allo stadio e poi, per una settimana, si trasforma in apostolo, cantore e custode delle tradizioni. Quando c’è da preparare scenografie, costumi, processioni, sono i primi ad arrivare.
Per chi cerca davvero, questo spettacolo è a volte indigesto. Vedere santi che danzano come in una sagra, o riti che sembrano più vicini ai culti pagani che al Vangelo non apre nessun varco verso l’alto. Ma bisogna riconoscerlo: riescono a fare comunità. Mettono insieme chi si combatte nelle beghe elettorali, fanno tornare chi vive lontano, danno ai devoti un momento di condivisione e agli altri una scusa per sentirsi parte.
Ecco il punto: si può restare ai margini, ma negarne il valore significherebbe non capire nulla della vita reale. Perché l’umanità non vive di dottrine astratte, ma di legami.
Forse il senso si nasconde qui: nel riconoscere che il vero collante non è pensare allo stesso modo, ma restare insieme nonostante le idee.
Magari il sacro è altrove; chi osserva vede nei riti in costume un carnevale fuori stagione. Ma la festa funziona perché è spettacolo collettivo: un teatro che non ha bisogno di platea, perché tutti recitano. E nell’istante in cui il santo passa, portato a spalla come un attore sul palcoscenico, nessuno è più spettatore.

di Francesco Lipari
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