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LA RUBRICA L’inquietudine Et inquietum est cor nostrum

Lei si siede nella penultima fila. Lo sguardo basso segue gli ornamenti del marmo. Dentro ha un seme di vita, ma ha deciso che non nascerà. Non lo ha detto a nessuno. Se lo dicesse qui, sarebbe lapidata a colpi di Ave Maria come l’adultera di cui si parla nel Vangelo di oggi. Due file più avanti, un ragazzo stringe il messale annotato a penna: etimologie greche, sfumature semantiche, appunti dottrinali. Ha l’aria da primo della classe. Poi esce dalla Messa e torna a scrivere — su Facebook — post feroci contro “le assassine che abortiscono”, pregustando le fiamme dell’inferno che aspettano simili peccatrici. Sotto i suoi post, decine di commenti bavosi: molti altri praticanti, ligi ai Rosari e alle processioni, che vorrebbero affondare i barconi dei migranti e hanno per modello un potente che si vanta di far morire esseri umani nei deserti. Giustificano genocidi e intanto contano i giorni del mese di Maria.

Cristo non ha mai puntato il dito contro le prostitute, né ha gridato contro i pubblicani.

Non ha mai avuto parole di fuoco per chi cadeva, ma ha rovesciato i tavoli dei custodi della purezza. Ai farisei — che della legge facevano un’armatura e della dottrina un’arma — ha ricordato che il sabato è per l’uomo e non l’uomo per il sabato.

I farisei, con la loro ipocrisia mascherata da ortodossia, tornano di continuo nei racconti evangelici: non come figure del passato, ma come specchi del presente. Eppure oggi, mentre le chiese si svuotano, rischiamo di ripetere lo stesso copione. Invece di interrogarci sulle ferite, preferiamo lucidare i paramenti.

La fede, nel mondo contemporaneo, viene irrisa come superstizione da bigotti e incolti; eppure, invece di mostrare la sua capacità di pensare, di generare cultura, di trasformare il mondo, ci aggrappiamo alle formule come fossero password per accedere al Regno — dimenticando che Dio non è un server e la fede non è un login. La storia del pensiero cristiano, che ha attraversato secoli inventando scuole, ospedali, università, e che ha illuminato persino nei suoi giorni più bui, viene liquidata con un’alzata di spalle. E dentro, spesso, noi stessi diventiamo complici di quella caricatura: preferiamo una fede ben pettinata, ordinata, che non scompigli nessuno, che non sollevi domande.

Ma la fede senza dubbi è un idolo, non un Dio.

È museo, non vita. Agostino lo sapeva bene: “Se lo comprendi, non è Dio.” Dostoevskij ci ha raccontato che il credente autentico è proprio colui che lotta con l’ombra del dubbio.

Madre Teresa ha confessato la sua notte interiore. E lo stesso Cristo, nell’orto del Getsemani, ha tremato davanti al calice; sulla croce, ha gridato l’abbandono.

Per proteggere una fede senza crepe, molti si rifugiano in bunker dottrinali: ben sigillati, pieni di parole giuste, con le finestre chiuse e la luce accesa solo dentro. Ma i bunker non salvano: isolano. E la verità — quella vera — non si conserva sottovuoto.

Il dubbio, invece, ci mette allo scoperto. Non ci lascia nel recinto dell’autosufficienza, ci costringe a uscire. È l’unico linguaggio che credenti e non credenti condividono. Tutti dubitano, in modi diversi: sul senso della vita, sulla giustizia, sul futuro, su Dio.

Ed è proprio lì, nello spazio fragile e comune del dubbio, che può nascere un terreno d’incontro.

Chi non ha dubbi, forse, non ha fede: ha un idolo ben lucidato, un capitale spirituale messo a rendita. E il cristianesimo ridotto a certezza diventa solo capitalismo dello spirito:

accumulo di simboli, rendita di dogmi, speculazione sulla grazia.

Mentre il Vangelo, quello vero, è perdita, è rischio, è debito che non si chiude.

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di Francesco Lipari

 
 
 

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Creato da Filippo Maniscalco

Gestito Antonino Cicero

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