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Perché lo si crede davvero!

Passare del tempo nella piccola chiesa di S. Maria in Trivio nel cuore di Roma è alle volte occasione di incontri significativi! Qualche giorno fa, mentre mi trovavo in sagrestia si è affacciato un signore di mezza età proveniente dalla Germania, un turista - mi dicevo - tra i tanti che transitano per questa zona della Capitale. Terminata l’attenta panoramica dell’affresco che abbellisce il soffitto del locale, si è avvicinato per chiedermi notizie circa la chiesa, la congregazione, il nostro santo fondatore, dopodiché mi ha domandato, giustamente, chi fossi e perché, così giovane, mi trovassi lì: ovviamente ho risposto facendo presente che sono uno degli otto seminaristi dei Missionari del Prez.mo Sangue che abitano nella casa annessa alla chiesa. All’udire ciò si è molto meravigliato che ci fossero così “tanti…” seminaristi e ha proseguito raccontando, con rammarico, della situazione della Chiesa, dei fedeli praticanti, del clero e dei seminari nel suo Paese e della forte crisi che, a suo avviso, il cristianesimo attraversa nel tempo presente. La cosa che più mi ha sorpreso però è stata la conclusione del veloce scambio di idee: dopo avermi salutato, mentre usciva dalla sagrestia, si è voltato con un sorriso smagliante e con il suo accento marcatamente tedesco mi ha detto: “sai, però, penso che questa crisi non è del tutto un male: forse oggi cristiani e preti si diventa perché lo si crede davvero e non per tradizione o necessità… auguri!”. Probabilmente questo insolito visitatore non aveva tutti i torti. In fin dei conti al giorno d’oggi, nella parte del pianeta che abitiamo, in un fragile equilibrio che oscilla tra opulenze e precarietà di vario genere per cosa o per chi sarebbe conveniente essere cristiano? Che si guadagna o si perde a esserlo? E, restringendo il campo, ci si potrebbe chiedere lo stesso per quanti scelgono di intraprendere la strada della cosiddetta speciale consacrazione. Quando l’insignificanza numerica raggiunge i picchi a cui assistiamo oggi questi interrogativi diventano centrali prima ancora dell’ideazione di un qualsiasi nuovo piano pastorale o di un ipotetico cambio di stile ecclesiale. A dare significato e stabilità all’appartenenza alla piccola e fragile comunità dei credenti non può essere, nel tempo presente, l’attaccamento a formule, a dottrine, a visioni filosofiche e teologiche, a residui di privilegi e attenzioni, a devozioni, tradizioni o riti, ma può esserlo solo qualcosa di più profondo e di più radicale che tocca la persona umana nella sua ricerca costante di senso, nella sua dimensione fisica, affettiva ed esistenziale, nel suo vissuto incarnato e impastato di quotidianità: si tratta dell’incontro personale con il Signore Risorto! Solo chi fa esperienza di Gesù nella sua vita (o ne sente anche solo il desiderio) attraverso la comunità o la famiglia, attraverso la presenza e l’ascolto di altri fratelli e sorelle, attraverso gesti piccoli di attenzione e di condivisione soprattutto nelle ore più difficili della sofferenza, attraverso l’annuncio semplice e diretto del Vangelo, può, in un tempo come questo definito “di fine impero” credere e farlo non in modo intimistico e sentimentale, ma lasciando che questa adesione a Cristo dia pieno compimento all’umanità di ciascuno e renda lieto - nonostante le prove, che dunque non sono attraversate in solitaria - il vissuto proprio e di chi sta intorno, così come agli albori della cristianità. «Se non ritorneremo come i primi cristiani, noi saremo gli ultimi cristiani»: in questo modo si sono espressi recentemente due intellettuali francesi e in questo giorno di Pentecoste vogliamo invocare il dono dello Spirito Santo perché soffi sulla Chiesa e doni ai credenti il coraggio di tornare alle origini, di attingere alle sorgenti della fede per continuare nelle forme e nei modi che vorrà a essere il segno lieto della presenza di Dio nel tempo e nella storia.















di Gabriele Panarello

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