
RUBRICA Quando la musica diventa preghiera Note, spirito e bellezza: un ponte tra cielo e terra
- taborsettepuntozer
- 27 lug
- Tempo di lettura: 2 min
In un tempo in cui tutto deve generare profitto per avere cittadinanza, parlare di arte come esperienza spirituale sembra un privilegio fuori moda. Anch’io, che ho scelto di fare il compositore – per una musica che non strizza l’occhio al mercato – mi sono chiesto, più volte, se la mia sia una scelta autentica o solo il privilegio di chi può permetterselo. Forse, come canta Francesco Guccini ne Il pensionato,
“è solo un tarlo / di uno che ha tanto tempo ed anche il lusso di sprecarlo”. Ma quel tarlo è la crepa da cui filtra una domanda più radicale: a cosa serve la bellezza?
È la spia di una domanda più profonda: quella del cercatore inquieto del senso del tutto.
Un possibile spiraglio l’ho trovato nella Lettera agli artisti di Giovanni Paolo II. In quelle pagine il Papa scrive che l’artista è “immagine di Dio Creatore”, e che l’arte non è un ornamento, ma un ponte tra cultura e fede. L’artista non produce oggetti: fa trasparire l’invisibile attraverso la materia. L’arte, continua Wojtyła, è un appello al Mistero, un linguaggio spirituale, una forma di rivelazione. Per questo la Chiesa ha bisogno dell’arte: solo l’arte può rendere visibile l’invisibile, affascinante ciò che è ineffabile.
È qui che bellezza e fede possono tornare a parlarsi. La bellezza – diceva Dostoevskij – salverà il mondo. E Giovanni Paolo II lo ribadisce con forza.
Lo stesso orizzonte lo ritrovo in Vito Mancuso, che immagina il cielo come una grande sinfonia spirituale, dove le anime sono note luminose in un unico spartito. Per lui, la musica è il linguaggio più alto dello spirito: non un intrattenimento, ma un’esperienza che ci fa “diventare spirito”, che ci permette di toccare l’eterno nel tempo.
È per questo, raccontano, che Einstein, dopo un concerto, disse: “Ora so che in cielo c’è un Dio”.
Già i Pitagorici vedevano nell’armonia musicale il riflesso dell’ordine del cosmo. Platone distingueva tra la musica udibile e quella più profonda, che governa il mondo. Sant’Agostino, infine, parlava della musica come scientia bene modulandi: una disciplina dell’anima, un cammino dal sensibile al divino.
La musica, allora, non offre risposte facili, ma tiene viva la domanda. Quando un’aria di Mozart ci commuove, o una fuga di Bach ci lascia senza fiato, non è solo bellezza: è una memoria che ci attraversa, un richiamo a qualcosa che ci supera e ci chiama.
In un tempo che confonde il valore con l’utile, la musica non serve a nulla – ed è proprio per questo che ci salva. È una preghiera senza parole, un invito silenzioso ad accordarci con ciò che non si vede. Una via per ascoltare, forse, l’ultima nota che rende sensato il disordine.
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