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Un amore per sempre

“Mi baci con i baci della sua bocca!”: così si apre un libro in versi, collocato nella Bibbia tra due libri salomonici, dopo Qoelet/Ecclesiaste e prima della Sapienza, che tanto ha impegnato gli esegeti circa il suo significato. Il Cantico dei Cantici, attribuito a Salomone, ma da datare verso il V o IV secolo a. C., dopo l’esilio, celebra l’amore di uno sposo, chiamato “re”, e di una sposa, detta “Sulammita”, attraverso i topoi del canto d’amore e dei canti nuziali: l’esaltazione reciproca della bellezza (lo sposo dice dell’amata, 4,3-5: “Come un nastro di porpora le tue labbra e la tua bocca è soffusa di grazia… I tuoi seni sono come due cerbiatti… che pascolano tra i gigli”; 7, 2-3: “Le curve dei tuoi fianchi sono come monili, opera di mani d'artista…Il tuo ombelico è una coppa rotonda, che non manca mai di vino drogato”; la sposa dice dell’amato, 5, 10-15: “Il mio diletto è bianco e vermiglio, riconoscibile tra mille e mille; il suo capo è oro, oro puro, i suoi riccioli grappoli di palma… i suoi denti bagnati nel latte... le sue labbra sono gigli, che stillano fluida mirra…Dolcezza è il suo palato; egli è tutto delizie!”), l’estasi del rapimento d’amore (4, 9-10: “Tu mi hai rapito il cuore, sorella mia, sposa, tu mi hai rapito il cuore con un solo tuo sguardo, con una perla sola della tua collana!”), il tormento della passione nello stare lontani (3,1: “Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato l’amato del mio cuore; l’ho cercato, ma non l’ho trovato”). Ma come giustificare all’interno del canone biblico la presenza di un testo che non parla di Dio e il cui linguaggio è palesemente erotico? Una delle più recenti interpretazioni collega la sua origine con i canti dedicati a due divinità sumeriche della fecondità, Tammuz e Ishtar, ed eseguiti anticamente durante le celebrazioni dedicate al loro matrimonio divino (ierogamia), che gli Israeliti avrebbero epurato e trasformato in canto d’amore; ci sono poi coloro che vedono nel Cantico una testimonianza degli inni nuziali ebraici, vera e propria espressione di una poesia d’amore che per il contesto, le immagini e il lessico è affine a quella di altre antiche civiltà. Non sono mancate nel tempo le interpretazioni allegoriche del Cantico, alcune molto antiche; gli Ebrei, a partire dal II secolo d.C., hanno visto nel testo l’espressione dell'amore di Dio per Israele e dell’amore del popolo per il suo Dio, avvalorando la lettura esegetica con il riagganciarsi al tema del matrimonio presente nei profeti a partire da Osea. Gli esegeti cristiani hanno seguito la stessa strada sotto l’influsso di Origene, applicando però l’allegoria al matrimonio di Cristo con la Chiesa o all’unione mistica dell’anima con Dio, come ha fatto san Giovanni della Croce. Anche se le interpretazioni allegoriche trovano il loro fondamento nel carattere ispirato del Cantico e nelle corrispondenze verbali con altri libri della Bibbia, il nostro testo, secondo quanto afferma il cardinale G. Ravasi, “non manifesta alcuna intenzione allegorizzante”, al contrario di quanto accade nei profeti, i quali segnalano in modo chiaro il ricorso all’allegoria e ne forniscono la spiegazione, come in Is. 5,7 (“Infatti la vigna del Signore degli eserciti è la casa di Israele e gli uomini di Giuda sono la sua piantagione prediletta”). La ricerca di parallelismi testuali e la legittima esegesi allegorica non ci devono distogliere da una lettura più attenta al senso letterale e da una interpretazione che non si lasci vincolare dal pregiudizio di una presunta inconciliabilità tra l’idea di Dio e l’idea dell’amore umano e passionale; il Cantico ha trovato giustamente posto tra i libri sapienziali, dal momento che si occupa dell’uomo e indaga uno degli aspetti più strettamente connessi con la vita stessa. L’anonimo poeta in modo originale riesce a dare risalto alla bontà e alla dignità dell’amore tra uomo e donna e “lo riscatta da ogni puritanismo come da ogni licenza erotica” (G. Ravasi). In fondo, a fronte del dolore del vivere, consolazione terrena (prefigurazione della gioia eterna?) è la gioia dell’amore, “più profonda del dolore più profondo. Il dolore passa, ma ogni gioia vuole di sua natura eternità, vuole profondità, vuole la profonda eternità” (Friedrich Nietzsche).


di Tinuccia Russo





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