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Un Pane condiviso

Fra i "semeia", i segni del Regno, ce n'è uno che sta al centro della narrazione di tutti i Vangeli: la moltiplicazione dei pani. Nel Vangelo di Marco, il più antico dei quattro, la sua sezione dei pani (Mc 6-8) è determinante sia per il destino di Gesù che per la comprensione, da parte dei discepoli, del mistero del loro Maestro. Nella progressiva rivelazione di questo mistero si manifesta l'incomprensione di tutti, dei suoi nemici e di coloro che gli sono vicini, a cominciare dai parenti più stretti che etichettano questo scomodo familiare come un pazzo da ricondurre alla ragione, tra le mura di casa, nel recinto sicuro della tradizione, del: «si è fatto sempre così, perché cambiare?». Il segno compiuto da Gesù è una evidente anticipazione del Mistero Eucaristico e di quel banchetto messianico a cui sono invitati tutti coloro che sono stati liberati dalla schiavitù d'Egitto per andare verso «una terra dove scorre latte e miele», una realtà dove si possa vivere finalmente da fratelli, nella pace e nella fiducia reciproca. Giovanni, più degli altri evangelisti, si è preoccupato di sottolineare quali sono le condizioni perché la celebrazione della Cena del Signore sia autenticamente cristiana. Al sesto capitolo del suo Vangelo indica come bisogna partecipare alla «carne e al sangue» di Cristo: condividendo di ciò che si è e ciò che si ha, rifiutando assolutamente l'esercizio del potere sugli altri, accogliendo l'unico Pane del cielo per diventare donatori di sé stessi agli altri e non consumatori dei doni altrui. In una parola: comune-unione con la persona di Gesù, col suo stile, col suo progetto di vita. Se ciò non bastasse, l'evangelista descrive dell'Ultima Cena solo la lavanda dei piedi. Accoglie veramente il Corpo e il Sangue di Gesù chi, come Lui, si fa servo, schiavo dei fratelli ed è disposto ad amare fino al punto di consegnare la vita. Possiamo davvero ricevere Gesù se accettiamo di diventare «pane mangiato e sangue versato» cingendo ogni giorno il grembiule del servo. Nessuno può prendere parte alla celebrazione eucaristica, nessuno può solo accostarsi alla Comunione, fosse anche il Papa, se non è disposto a rivestire il grembiule dello schiavo per lavare i piedi ai fratelli. Se non ci lasciamo lavare i piedi da Gesù, e non facciamo la stessa cosa con i fratelli, non potremo essere in comunione con Lui. Gesù sa bene che nella sua comunità c'è il rischio sempre presente che il presiedere diventi dominio, motivo di separazione e di supremazia sui fratelli, come Pietro che vorrebbe lasciare le cose come stanno: «non mi laverai mai i piedi, queste cose le facciano i servi». In tutto questo, Gesù prefigura anche una comunità povera: a celebrare l'Eucaristia non può non essere che una Chiesa povera, priva di arroganza, aliena da qualsiasi desiderio di potere. Il Servo di Dio don Tonino Bello sognava «una Chiesa povera, semplice, umile, mite, che condivide con gli uomini la più lancinante delle loro sofferenze: quella dell'insicurezza. Una Chiesa che mangia il pane amaro del mondo, che nella piazza del mondo non cerca spazi propri dove collocarsi. Non una Chiesa arrogante che ricompatta la gente, che vuole rivincite, che attende il turno per le sue rivalse temporali, che fa ostentazioni muscolari col cipiglio dei culturisti». La logica di Gesù, invece, è quella del servizio, del: «date voi stessi da mangiare». Nella sua ambiguità lessicale può significare: date in cibo voi stessi (e Gesù un giorno lo farà) oppure: condividete con tutti ciò che possedete. Non possiamo essere uniti solo nell'ascolto di una Parola che sazia lo spirito, se poi assumiamo le logiche del mondo. Questa è invece la logica di Dio: condividere tutto quanto, i beni e la vita. I discepoli di Gesù d'ora in avanti saranno chiamati a fare una scelta fondamentale: o accontentarsi di un rito oppure coniugare unità di fede e di vita sposando le prospettive aperte dalle logiche e dal vissuto di Gesù. Una fede staccata dalla vita reale crea ritualità vuote totalmente disancorate dalla realtà, dalla profondità del quotidiano. Fino a quando non riusciremo a superare questa mentalità "magica" che spesso inquina i nostri sacramenti, rimarremo solo a livello di "abluzioni" da fare, formalmente corrette, ma lontane dal cuore di Dio, anzi, spesso pure conniventi con stili di vita ingiusti. Siamo preoccupati più della validità dell'atto di culto che della sua autenticità, ma l'accurata formalità del culto reso a Dio non sempre è sinonimo di autenticità. Purtroppo capita molto spesso che, come scrive Arturo Paoli, «nelle nostre belle celebrazioni eucaristiche, mangiamo ostie e vomitiamo diavoli». Che Gesù ci svegli da questi sonni intimistici e alienanti.












di Santino Coppolino

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