Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia
In questo scorcio di anno giubilare conviene ancora una volta riflettere sul concetto di “misericordia”, per tentare nuove strade e scoprire le molteplici espressioni dell’amore che Dio effonde nelle nostre vite. Lo faremo attraverso un romanzo della letteratura italiana, “I Promessi sposi” di Alessandro Manzoni, in cui trova piena espressione l’amore “viscerale” di Dio per l’uomo, quel “provare compassione” con cui Egli restituisce la vita a chi non ce l’ha. La forza vivificatrice della Misericordia, agisce su due dei personaggi del romanzo manzoniano, Lodovico/fra Cristoforo e l’Innominato. Il giovane Lodovico, in un duello con un nobile arrogante uccide il rivale che aveva causato la morte di un suo servo, arrivato in suo soccorso; viene tratto in salvo in un convento di cappuccini e qui decide di farsi frate, prendendo i voti con il nome di Cristoforo. Si addossa, poi, il compito di proteggere gli oppressi e, nel caso specifico, di difendere Renzo e Lucia dai soprusi di don Rodrigo. L’Innominato è, invece, colui che viene incaricato da don Rodrigo del rapimento di Lucia e che, dopo un intenso dialogo con lei, trascorre una notte tormentato dal pensiero dei propri misfatti. All’alba, il ricordo delle parole della ragazza - “Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia” - e il progetto di liberarla aprono dinanzi a lui la speranza del perdono divino. Ci sono delle pagine del romanzo che illuminano ulteriormente il travaglio interiore dell’Innominato e la trasformazione operata in lui dalla Grazia divina; sono quelle relative al colloquio con il cardinale Federigo Borromeo, in cui il reo esprime tutto il suo pentimento “ad un uomo (il cardinale) che confessa di essere anch’egli peccatore, che dall’udire le sue colpe ricava fiducia che chi le rivela sia caro a Dio, che venera nel ravveduto la Grazia di Colui che richiama a se’ i cuori” (cap. VIII, Osservazioni sulla morale cattolica, A. Manzoni, 1819). Alla gioia dell’Innominato, che esalta Dio come infinitamente buono e grande, perché gli ha concesso di comprendere se stesso e la sua orribile vita, contribuisce l’atteggiamento del cardinale che suscita nel suo interlocutore fiducia e rispetto; egli non lo aggredisce ponendosi di fronte a lui come giudice, ma lo attira a se’ con un impeto di carità , gettandogli le braccia al collo, riuscendo così a vincere l’orgoglio del colpevole e facendosi umile strumento, umile intermediario tra l’Innominato stesso e Dio. Il cardinale Federigo e fra Cristoforo rappresentano due esempi di virtù attiva, incarnano il cristianesimo come amore verso il prossimo, come lotta per instaurare la Parola di Dio e la giustizia nel mondo. Il personaggio di fra Cristoforo percorre tutto il romanzo; egli è l’uomo del perdono in un mondo che predica l’odio e la vendetta, vive e soffre per espiare un peccato e per incitare gli altri a perdonare, così come è stato perdonato lui dal fratello dell’uomo che ha ucciso prima di prendere i voti, dal quale ha ottenuto il “pane del perdono”. E’ sempre il frate che ritroviamo come protagonista della problematica conclusione del romanzo. La chiave di lettura è costituita dal cosiddetto “testamento spirituale” del cappuccino nel XXXVI capitolo; dopo aver sciolto il voto di Lucia, fra Cristoforo esorta i due giovani ad un matrimonio cristiano e mostra loro che le sventure sono una prova voluta da Dio, una prova di cui gli uomini non possono mai capire il significato. E’ la teoria della “provida sventura” che, nella contrapposizione dialettica tra bene e male, non porta con sé una visione ottimistica della storia. I prepotenti continueranno a dominare e il male a prevalere sul bene. Solo coloro che sapranno accettare con pazienza le sventure, restando fedeli al messaggio divino, ne usciranno fortificati e saranno premiati nell’aldilà. Poi il vecchio frate dona loro il “pane del perdono” e chiede di farlo vedere ai loro figli, i quali sono chiamati a perdonare tutto e sempre e a pregare, anche per lui. Con questo struggente commiato, fra Cristoforo affida a Renzo e Lucia non solo il suo testamento ideologico ma anche il significato della sua vita, affinchè essi lo tramandino e lui resti nel ricordo dei vivi e dei posteri. Manzoni ha creato così una delle pagine più intense del romanzo, in cui il frate rivela tutta la sua umanità; egli ha saputo umanizzare i suoi personaggi attraverso la rappresentazione del tormentato sistema dei loro delitti, della loro crisi interiore, senza farsi prendere la mano dall’ansia moralistica che avrebbe potuto trasformare le loro vicende in una “favola catechistica”. “Ma la favola catechistica qui non c’è: c’è soltanto una favola umanissima” (Luigi Russo).